Vicini di casa

‎Qualunque cosa accada nel nostro Paese, qualunque strada prendano gli eventi e a prescindere dalle conseguenze che porteranno con sé, noi, discepoli di Gesù, rimarremo solidali di ogni siriano senza guardare alla sua appartenenza politica, religiosa, tribale o linguistica. Ciascuno di noi solidarizzerà con il suo vicino di casa senza scegliere tra vicino e vicino se non per sostenere l’equità e difendere il debole. Prepariamoci dunque a dare rifugio, al momento della prova, al nostro vicino chiunque egli sia, sapendo che nel pericolo non ci darà rifugio nessuno fuorché il nostro vicino, colui con il quale abbiamo spezzato fin dall’infanzia il pane delle gioie e dei dolori.

Paolo Dall’Oglio sj, Appello di Natale 2011

Non so che rapporto voi abbiate con i vicini di casa. Io sono divisa tra il desiderio (teorico) di socializzare e l’incubo di farlo davvero. Però, anche in una grande città come Roma, sento meravigliose storie di vicini di casa che solidarizzano, fanno cose insieme (dalla grigliata di arrosticini alla spesa al GAS), si supportano nella cura di figli e anziani, realizzano persino orti condominiali autogestiti. Mi capita però spesso di pensare a questo paradosso della vicinanza/lontananza. Dell’estraneità a due metri da casa tua.

Anche Nizam, spesso, mi ci fa riflettere. Il vicino di casa, per un musulmano, è una categoria protetta di per sé. Esserci per i propri vicini, a prescindere dalla comunanza di religione o di etnia, è uno dei cardini etici di un buon musulmano, con preciso fondamento coranico (Sura anNisa: “Siate buoni con i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i vicini vostri parenti e coloro che vi sono estranei, il compagno che vi sta accanto, il viandante e chi è schiavo in vostro possesso”) e abbondanza di aneddoti della vita del Profeta. Sebbene la formulazione della sura sia infinitamente più generica di quella evangelica (nei testi cristiani non ci si limita a raccomandare di trattare bene chi ci è toccato in sorte come vicino, ma persino attivamente a “farsi prossimo”, a prescindere, anche di chi è lontano da noi, fisicamente e spiritualmente) ho la sensazione che questo concetto in molti Paesi a maggioranza musulmana sia preso più sul serio di quanto non avvenga da noi. Nell’esperienza di Nizam questo si traduceva in pasti condivisi, specialmente in occasione delle festività, assistenza in caso di malattia, condivisione di lutti. E’ un fatto anche che, durante la guerra in Libia, Tunisia e Egitto abbiano aperto le frontiere a chi fuggiva, nonostante l’oggettiva delicatezza della situazione dal punto di vista politico e economico. Un precedente importante è stato quello della Siria e della Giordania, che hanno accolto centinaia di migliaia di persone in fuga dall’Iraq (molte delle quali, tra l’altro, di religione cristiana). Trovo quindi intelligente il richiamo di Paolo Dall’Oglio, gesuita e monaco che vive e opera in Siria dagli anni Ottanta: il rischio di una guerra civile devastante c’è, ed è molto concreto. Dall’Oglio (che oggi rischia l’espulsione dal Paese come persona non desiderata) sta facendo appello a tutti i valori condivisi che ancora esistono in quei luoghi, la solidarietà tra vicini in primo luogo. Probabilmente fallirà anche lì, ma non posso fare a meno di pensare che nessuno, in Italia, potrebbe mai pensare di fare leva su questo concetto, oggi. Una volta sì, a giudicare dai racconti dell’epoca della guerra. Mia madre mi parla di persone accolte, nascoste, sfamate, ospitate a prescindere dal credo religioso o politico di chi era accolto e dalla povertà drammatica di chi accoglieva. E quasi ogni narrazione di quel periodo contiene episodi del genere.

Ieri ho partecipato a una conferenza stampa di Medu (Medici per i diritti umani) sui rifugiati che vivono per strada a Roma. Mi sono resa conto che per me si tratta di situazioni note, che sono abituata a considerare e analizzare. Ma così non è per la maggior parte dei miei concittadini. Anche in questo caso si tratta di vicini di casa. Vicinissimi. Penso a i profughi afghani accampati alla Stazione Ostiense. Una storia che dura da molti anni. Se cercate sul web troverete abbondante documentazione. Ma basterebbe aprire gli occhi, quando ci si passa davanti. Si tratta di 100-150 persone accampate a margine di un binario di una delle stazioni più frequentate di Roma. Non è che sia tanto difficile sapere che ci sono. E che tanti, troppi, sono ragazzi di meno di 18, persino bambini, non accompagnati. Da un po’, arrivano anche madri sole con neonati. Stanno lì, messi tra parentesi dalla nostra città. Gli insediamenti “alternativi all’accoglienza”, come li definisce con un favoloso eufemismo un bando del Ministero dell’Interno, sono una questione complicata da risolvere. Tiri un filo e viene fuori un groviglio di problemi, alcuni locali, alcuni nazionali, altri persino europei. Una matassa di leggi, lacune normative, corto circuiti burocratici. Resta un fatto. Lì ci sono un buon numero di nostri vicini di casa, anche se al momento la casa non ce l’hanno. Ho detto, senza alcuna ironia, al Momcamp che mi considero privilegiata perché ho l’opportunità di conoscere alcuni di loro. Sono consapevole di essere sembrata bizzarra, ma vi assicuro che se faceste la stessa esperienza anche voi lo pensereste. Ho visto con i miei occhi signore non più giovani, volontarie della scuola di italiano, andarsi a bere un té in un binario morto invitate dai propri studenti come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Presto però il campo profughi all’Air Terminal non ci sarà più. In pochi mesi aprirà Eataly e la stazione accoglierà i nuovi treni NTV. Una bella notizia, la riqualificazione di un quartiere che certamente merita. Basta con le tendopoli, che offendono la dignità di tutti, rifugiati e cittadini. Ma c’è un piccolo particolare. Le persone da lì, in qualche modo, saranno tolte. Ma le alternative, al momento non esistono. A meno di un miracolo di responsabilità civile congiunta (per cui, a onor del vero, il presidente dell’XI Municipio si sta spendendo per quanto gli è possibile), finirà che gli afgani si accamperanno altrove, un po’ più nascosti. E tutti noi avremo perso una splendida occasione per dimostrarci, una volta tanto, lungimiranti.

Post scriptum. Forse può essere utile un piccolo video illustrativo. Ne trovate vari, in rete.

8 pensieri riguardo “Vicini di casa”

  1. Il problema ovviamente non è facile da risolvere. Però io non mi stupisco di questa distanza tra vicini di casa. Non mi piace ma è il risultato della ricchezza. Tra poveri ci si aiuta, non solo perché lo dice un profeta, ma perché aumenta la probabilità di sopravvivenza. Tra ricchi non ce n’è più bisogno. Commento amaro, perdonami.
    Per quanto riguarda gli afgani direi che uno stato che accoglie in questo modo non è uno stato civile. Una tendopoli su un binario morto non è comunque accoglienza, ovunque decideranno di spostarli ora.

    1. Mi corre l’obbligo di precisare che la tendopoli non è allestita dallo Stato. Lo Stato si limita a non occuparsene. Le tende sono state fornite, come soluzione provvisoria, da una ONG. Prima erano solo coperte su binario.

  2. Ho appena letto “nel mare ci sono i coccodrilli”, che vivamente raccomando non solo per i contenuti, ma anche per la schiettezza e l’assoluta mancanza di autocompatimento con cui certi temi sono trattati. Cerco di farmi un’idea di che cosa significa la vita del profugo. E mi sembra incredibile che i giornali parlino solo di spread e di debito pubblico.

    1. Insieme a Terre senza Promesse, ovviamente 🙂

      2011/12/1 Chiara Peri : > Confermo. E’ un libro eccellente, che raccomando vivamente anche io. > > 2011/12/1

  3. Da un paio di anni vivo in una casa nel bosco (davvero). La casa più vicina è a 500 mt, ma appartiene a dei milanesi che vengono (quando vengono) lí solo nel we. Nonostante questo isolamento (che è, appunto, solo “fisico”!) io e marcello abbiamo creato una rete di amicizia e solidarietà molto solida: io do’ ripetizioni, tengo i bambini se nel pomeriggio i ns amici non fanno in tempo ad andarli a prendere, loro vengono ad accudire gli animali quando siamo in viaggio, e tante altre cose.
    Ma sai cosa? Sono tutte famiglie che si sono spostate dalla grande città al paese di campagna. Questo è un dato estremamente significativo. Non voglio assolutissimamente paragonarmi ai profughi (non ce ne sarebbe motivo, anche ), ma a volte mi sembra di essere arrivata in terra straniera. Per carità, non sono oggetto di discriminazione, bensí di indifferenza. Anzi, di una cosa che mi fa incazzare: la diffidenza. Come se fossimo venuti a rubare qualcosa. No! Abbiamo solo deciso di cercare di star meglio! (e ci siamo riusciti, in effetti)
    Ma noi “venuti dalla città” ci siamo trovati a creare una sorta di comunità: solo cosí possiamo aiutarci se abbiamo bisogno, visto che tutti si sono trasferiti “soli”, senza nonni al seguito (ci sono ovviamente delle eccezioni perché abbiamo anche tanti amici del posto, ma in generale, non siamo stati accolti benissimo e nessuno ci ha offerto un aiuto nel caso avessimo avuto bisogno di informazioni pratiche, ecc). Ripeto, non voglio paragonarmi a nessuno, ci mancherebbe. Ma penso a chi arriva da lontano, con un viaggio allucinante, con un sogno nella sacca che ha sulle spalle. E lui sogna davvero di stare semplicemente tranquillo, meglio, diciamo. E invece deve quasi sentirsi felice perché ora ha una tenda e non più solo una coperta. Penso anche all’ India. Ma è diverso, perché loro sono a casa loro. E questo non è poco.

    Vabbè, scusa, ho buttato giù un po’ di pensieri. Vado. Un abbraccio, paola

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