Avevo 19 anni e me ne stavo seduta su una finestra, nel corridoio di lettere, con le gambe a penzoloni. Non ricordo più la conversazione che abbiamo avuto in quell’occasione, ma per anni ci scherzammo sopra: “Ma ti pare che parlavi a un professore in quel modo, dall’alto in basso?”. Ora che so che il professor Garbini non c’è più, i ricordi si accavallano e non riesco a metterli a fuoco con chiarezza. Una fetta rilevante della mia vita, della mia giovinezza, nel mio essere quello che sono l’ho vissuto accanto al professor Garbini, senza mai smettere di dargli del lei e allo stesso tempo amandolo come un secondo padre.
Ho litigato con lui molte volte, l’ho contraddetto, sfidato apertamente. Dal lampo nei suoi occhi capivo quando giocava anche lui e quando si arrabbiava davvero. Ricordo le lettere e gli articoli battuti a macchina, le bozze dei suoi libri che mi portava da leggere prima di pubblicarli (più tardi me le spediva), le conversazioni nel suo studio, i visitatori che ogni tanto si affacciavano. Le conferenze, le lezioni, sempre diverse una dall’altra. Gli appunti scritti in fretta con la stilografica, anche quei buffi caratteri ebraici che in pochi mesi avevamo dovuto imparare a riconoscere. Le lunghe sequele di caffè alla macchinetta davanti alla biblioteca, con le cialdine che comprava dalla signora Elena e io che avevo il compito di servire gli ospiti.
Sarebbe facile oggi dire che era tanto bravo e tanto buono, che ha fatto tutto bene, che era un santo, che tutti lo amavano. Sarebbe facile e sarebbe falso, perché era un uomo complicato, con tanti difetti, a suo modo fragile, ma anche irascibile. Ricchissimo di ricordi, di idee, di intuizioni, di cultura, di poesia. Generosissimo e allo stesso tempo limitato da mille dubbi, complessi, scrupoli.
Gli sono grata di quello che mi ha dato, di avermi apprezzato (forse più di quanto meritassi), di avermi lasciato sempre libera e di avermi sinceramente stimato. Di aver cambiato idea, almeno in un paio di occasioni, convinto dalle mie argomentazioni. Di aver condiviso con me la gioia purissima della ricerca e quei momenti di esaltazione che ti fanno credere di aver risolto un enigma che resisteva agli assalti da secoli (o magari di aver visto un ghiotto enigma dove nessun altro lo avrebbe notato). Di aver riso di cuore con me, con noi, e di aver assaporato il privilegio di avere tempo e spazio per le nostre menti.
Una volta mi disse, scherzando, che in un certo senso sarei stata la persona giusta per fare un discorso al suo funerale. “Ma non avrai mai il giusto grado accademico”, chiosò subito e ridemmo tutti e due, davanti a un tè freddo al bar nei pressi dell’Accademia dei Lincei. I fatti gli hanno dato ragione e no, decisamente non sono una persona adatta a fare orazioni pubbliche. Gli dedico i miei molti e confusi ricordi privati e tutta la mia gratitudine.
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