Non avevo ascoltato, pur avendolo visto comparire a tratti sui social, il discorso delle tre studentesse della Normale. Oggi mi sono imbattuta in un commento piuttosto critico e questo mi ha offerto l’occasione di ascoltarlo e riflettere un po’, alla luce della mia esperienza personale.
Premetto che il discorso delle ragazze in sé sollevava questioni diverse tra loro, cercando di tenerle insieme con una argomentazione un po’ lacunosa e certamente (in questo concordo con l’articolo) piuttosto ideologica. Non sono pertanto rimasta particolarmente folgorata dall’acutezza dell’analisi in sé. Tuttavia il discorso evidenziava alcune questioni gravi, che mi pare ci sia estrema reticenza ad affrontare esplicitamente.
Su tutte, una. Il mandato, la mission, dell’università pubblica. Le risorse investite sono meno della media europea, dicono i dati e, aggiungo io, singolarmente mal spese. La platea dei laureati è ancora bassa rispetto alla media europea, eppure non pare che il messaggio pubblico sia quello che dovrebbero aumentare. E la ricerca? Qui il discorso sarebbe lungo, ma in molti settori la fuga all’estero dei laureati migliori, ben formati dalla nostra istruzione pubblica, la dice lunga sulle prospettive offerte in Italia in termine di carriera, di retribuzione e anche, banalmente, di sostenibilità.
Credo che da anni si stia cercando di tenere insieme, malamente, due concetti ben difficilmente conciliabili. L’Università italiana del passato, elitaria per definizione e per vocazione, luogo di formazione e indirizzo della classe dirigente politica ed economica e, come tale, fieramente poco inclusiva (non necessariamente solo o prevalentemente rispetto al reddito); e l’Università moderna, che esiste a sprazzi qui e là, che è un ente di formazione per un pubblico ampio e che, contemporaneamente, dovrebbe anche produrre ricerca originale in linea con i variegati standard via via definiti a livello internazionale (spesso biecamente quantitativi). In questo bipolarismo si inseriscono le università private, che strizzano l’occhio all’uno o all’altro aspetto, a seconda della loro natura specifica. Ma su quelle non mi soffermo.
L’Università, per come l’ho vissuta io (non solo da studentessa ventenne, ma anche da dottoranda e da docente a contratto*) è soprattutto, ancora oggi, un luogo di potere. Potere che si manifesta in molte forme diverse, la cui violenza è grosso modo proporzionale alla quantità di denaro correlato (ma non solo). Non meraviglierà dunque riscontrare nell’Università italiana le stesse dinamiche che abbiamo visto e vediamo nella vita politica: un certo scadimento di livello, meno remore ad agire smaccatamente per il proprio tornaconto personale, logica clientelare a scapito della libertà di giudizio e di pensiero, ritrosia ad assumere posizioni nette e anche una certa generale incapacità e persino rifiuto tinto di snobismo di gestire aspetti (si veda ad esempio la programmazione e la progettazione) che ormai sono compiti ineludibili di chi ha una posizione di responsabilità in un ente pubblico. Sono stata testimone diretta di scelte suicide che hanno portato a chiusura di cattedre, smembramenti di dipartimenti, smantellamento di istituti non dettate da alcuna logica neoliberista, ma da banalissimo disinteresse di professori anziani non interessati a nulla di diverso dal proprio prestigio personale (e conto in banca). Gente che si riteneva in diritto, in virtù della propria posizione, di disinteressarsi di qualsiasi prospettiva futura.
Sto parlando, peraltro, di docenti “eccellenti” e a loro modo straordinari, scientificamente e a volte anche didatticamente. Ma che hanno cercato (di solito goffamente) di utilizzare strumenti nuovi o rinnovati (finanziamenti, PRIN, concorsi, eccetera) per perpetrare il sistema di potere in cui loro stessi, talora assai giovani, erano stati ammessi. Vorrei vedere in chi ha ruoli di spicco nell’università e nella ricerca pubblica, almeno un briciolo di senso dello Stato. Termine magari desueto, che implica rispetto dell’istituzione, ma soprattutto il dovere di contribuire alla sua crescita e di fare in modo che contribuisca al bene comune e alla promozione dei valori della nostra Costituzione.
Mi accorgo, scrivendo, di sembrare un po’ estrema e emotivamente coinvolta. Confesso, lo sono. Chi mi conosce sa che i fatti, numerosi, a cui faccio riferimento ancora mi bruciano. Non tanto e non solo perché non ho avuto la possibilità di fare il lavoro in cui, a detta di molti, eccellevo. Ma soprattutto perché ho visto disperdere senza alcun ritegno generazioni di studiosi brillanti e formati con risorse pubbliche, talora per oltre dieci anni, scegliendo di voltare le spalle al futuro, tanto della didattica che della ricerca, per arroganza, disinteresse, ignavia, assopimento nel proprio squallido privilegio. E la cosa più dolorosa è stata vedere questo stesso meccanismo riprodursi anche in alcuni di quei pochissimi della mia generazione che sono entrati in quel sistema (tipo l’autore dell’articolo linkato all’inizio, mio coetaneo). A riprova del fatto che si tratta di una logica e di una cultura e non solo dell’atteggiamento del singolo.
Il tradimento più grande e grave è stato quello di toglierci la speranza di contribuire, con i nostri studi e le nostre ricerche, a costruire un’Università migliore e anche una società migliore. I primi a ridere di noi sono stati gli stessi professori che con il loro lavoro, i loro scritti e le loro lezioni avevano aperto davanti ai nostri occhi quella prospettiva, certamente ingenua (vedo già il sorrisetto di Giunta e di quelli come lui), ma sana e sacrosanta. Lo slancio di cittadini giovani che volevano impegnarsi e contribuire davvero, mettendosi in gioco in prima persona a costo di sacrifici anche rilevanti. Una istituzione pubblica che smantella e affossa questo fa un danno grave e duraturo, i cui risultati sono credo sotto gli occhi di tutti.
Delle donne no, oggi non scrivo. Sarebbe davvero troppo. Vi basti questo: mia madre, che era assistente universitaria, rinunciò alla carriera accademica all’Università Cattolica di Milano alla fine degli anni ’50. L’unica volta che ne abbiamo parlato mi ha dato motivazioni che certamente erano assolutamente valide negli anni ’90 e 2000, come ho imparato a mie spese. Temo che lo siano anche oggi.
* Mi si consenta di aprire una parentesi sul tono singolarmente sgradevole e volgare scelto da Giunta. No, l’intelligenza e la presunta (e autoproclamata) superiorità non giustifica tutto. Si può argomentare senza offendere, sminuire o ridicolizzare e Giunta ha scelto invece una strada ben nota all’accademia vecchio stile: dare per scontato, sghignazzando e dando figuratamente di gomito al collega, che i giovani non abbiano niente di interessante da dire. Specialmente, oserei aggiungere, se di sesso femminile.
Puoi farmi qualche esempio delle scelte suicide a cui alludi nel post?
Preferirei farlo a voce, perché nella sintesi di un commento si rischia di essere troppo sbrigativi. Ma farò un esempio. Il professore con cui mi sono laureata, ordinario e accademico dei Lincei, per i molti anni in cui a vario titolo l’ho frequentato cedeva i “suoi” fondi per la ricerca a un collega, “per non avere rogne”. Non meraviglia che la sua cattedra, una delle pochissime in Italia di quella materia, oggi non esista più.
Anch’io ho raccontato la mia esperienza universitaria in questo post: https://wwayne.wordpress.com/2020/06/07/una-brava-persona/. Che ne pensi?
Il capitolo segreterie e pratiche burocratiche non lo apro nemmeno! Ti dico solo che una volta per fare uscire un’amica da un loop kafkiano che rischiava di farle perdere sia il dottorato che la scuola di specializzazione, il mio fidanzato di allora si fonde in punto di morte per spiazzare l’addetta allo sportello e estorcerle il foglio necessario a sbloccare il tutto.
Ti ricordi qual era il motivo del loop kafkiano? C’era un unico problema o una serie infinita di ostacoli diversi come nel mio caso?
Era ridicolmente semplice, ma irrisolvibile. La mia amica aveva iniziato a frequentare la scuola di specializzazione e poi aveva vinto il dottorato. C’era la possibilità di “congelare” la scuola, fare il dottorato, e poi riprendere la scuola di specializzazione. Il problema era il diploma originale di maturità, depositato al momento di iscrizione alla scuola di specializzazione. La segreteria lo dava indietro se si presentava l’iscrizione al dottorato, ma al dottorato senza averlo non facevano l’iscrizione. Essendo obbligatoriamente il diploma in originale e non un certificato o una copia, non se ne usciva.
Perdonami, ma anche la tua amica ci ha messo del suo: saltellare dalla scuola di specializzazione al dottorato e ritorno è una decisione legittima, ma lo sai prima ancora di prenderla che così facendo ti infilerai in un ginepraio burocratico senza fine. Le segreterie ti rendono la vita impossibile anche quando devi fare una cosa semplice, figuriamoci se ti metti a fare sti casini. Comunque mi fa piacere che abbia trovato una via d’uscita.
All’epoca era una scelta comunissima, specialmente per chi non poteva permettersi di perdere anni a causa delle tempistiche e dell’imprevedibilità degli esami di ammissione.
Hai detto bene, gli esami di ammissione sono imprevedibili: infatti di norma ogni membro della commissione ha un suo protégé a cui vuole far fare il dottorato, e quindi non puoi mai sapere se il professore che ti ha preso sotto l’ala riuscirà o meno a persuadere i suoi colleghi che il tuo progetto è più interessante di quelli degli altri candidati.
Per fortuna nel mio caso non si è posto il problema: sia perché la mia relatrice non mi ha proposto il dottorato, sia perché avevo intuito che il mio ambiente di lavoro ideale erano le scuole superiori, non l’università. A distanza di tanti anni continuo a pensare che la mia intuizione fosse esatta.
È triste il quadro che dipingi e suscita indignazione ma più che altro rassegnazione. Come uscirne? Ho abbandonato l’università sicuramente per incapacità e problemi miei, ma ricordo con terrore quegli anni sia a causa della percezione, nel mio piccolo, di ciò che anche tu descrivi come strutture di potere, sia a causa della natura kafkiana delle segreterie. Un incubo.