Scrivo questo post di getto, forse mi pentirò di averlo scritto. Me ne pentirò perché questo non è un post su Israele e sulla Palestina, o almeno non nel senso in cui alcuni potrebbero intenderlo. Non lo scrivo per suscitare dibattiti, né per essere indottrinata. Da tanti anni rifletto su questa guerra, se "riflettere" è la parola giusta. Sono legata al Paese conteso da molti lacci, di colore e consistenza diversa. Quelli che più contano sono quelli più illogici, più emotivi. Ieri sera ho visto, in parte, un bel documentario su Gerusalemme, che trasmettevano a Linea Notte. Meir Shalev, citando qualcuno (Melville?), ricordava che a Gerusalemme quelli che contano davvero sono i morti. A suo tempo pensai qualcosa del genere, quando ancora studiavo. Gerusalemme sembra davvero un miracoloso scoglio di bellezza in un mare di morte. C'è della violenza anche nella posizione della città, accerchiata da cimiteri di ogni confessione e da un deserto assoluto. Gli avvoltoi volano sulle torri dell'Università. Perché racconto questo? In Israele ho vissuto esperienze che hanno fatto di me quello che sono, incluso un attentato a un autobus su cui sarei ben potuta essere (viaggiavo in quello successivo, stessa linea, stesso tragitto). Le violenze quotidiane, piccole e grandi, tutte ugualmente inaccettabili, incluse quelle della semplice arroganza di chi può (o sembra potere) di più. Ma continuo a perdere il filo. Mi succede sempre quando parlo di questo argomento. Ho amici, cari, dall'una e dall'altra parte del muro (in senso reale e in senso figurato). Facebook me lo ricorda quasi tutti i giorni. Ogni volta che le violenze si riaccendono (e quand'è che si spengono?), a ogni attentato o missile, ogni volta che ci sono di mezzo navi o assedi, leggo note di fuoco, articoli di controinformazione e di contro-controinformazione, riflessioni e sfoghi di ogni genere. Fin qui non mi lamento. Fa male, ma è necessario. Ma l'odio, l'odio puro, è un'altra cosa. Ho cancellato uno dei miei amici perché alcune sue espressioni non erano per me ammissibili (sì, ovviamente, l'argomento era questo). Ieri ancora mi sono chiesta se cancellarne un altro (significativamente, dello schieramento opposto al cancellato), ma poi ho deciso di no. Quell'espressione, "maledetti", non era stata scritta da lui ma da uno dei suoi commentatori, anche se sono certa che l'avrebbe pienamente sottoscritta. Ho pensato molto in queste ore a cos'è che mi fa sentire tanto a disagio. Forse il fatto che continuo ostinatamente a rifiutarmi di affiliarmi a una fazione? O piuttosto, semplicemente, questa capacità dei social network di portarti la guerra in casa? Non parlo di informazione, ma di odio per il nemico. Sono cresciuta credendo che i nemici fossero stati per sempre archiviati dalle nostre vite, insieme alle patrie sacre e alle altrettanto sacre frontiere. Quanto mi sbagliavo. Delle frontiere è inutile parlare. Gli effetti funesti che hanno sulla vita e sulla morte di migliaia di persone sono parte del mio lavoro. E il nemico? Possibile che una generazione cresciuta imparando a memoria, a scuola, La guerra di Piero di De André creda ancora nel nemico? Ci crede, eccome. Nemici bambini, nemici anziani, nemici mai visti, nemici con cui magari usciremmo volentieri a cena, se li conoscessimo. Tutti con la divisa di un altro colore. Grida forti contro il nemico mi arrivano, sempre più di frequente, da Facebook. Non fraintendetemi. Non è tanto strano che chi sta combattendo, oggi, abbia un nemico. Io, per mia buona sorte, non vivo in guerra. Ma mi arriva, fa parte della mia quotidianità. E non ho ancora imparato a gestirla.
Non credo sia possibile gestirla.
per di più certe "utopie" che potevamo avere e per cui potevamo lavorare un po' di anni fa oggi sembrano accartocciate. la guerra è molto presente nel nostro quotidiano, io penso. quanta gente vedi per strada che ne è fuggita? io ondeggio. tra pensare che non si possa gestire e vada "tollerata" (o "amministrata" difendendomi) e pensare di dovermi rendere sempre di più "nonviolenta"
no lo so… però è un bel post!