Il buon senso delle religioni

Più passa il tempo, più mi rendo conto di avere una posizione bizzarra in fatto di religione. Mi pare di avere le idee molto chiare, ma non sono mai riuscite a spiegarle compiutamente, il che mi rende a tratti assai confusa. L’altro giorno ho finito di leggere un libro di un espertissimo di dialogo interreligioso, Brunetto Salvarani, perché dovrò scriverne una breve recensione. Non è che mi abbia folgorato, ma l’ho trovato pieno di buon senso. Di pensiero in pensiero, mi sono trovata a formulare questo: in realtà le religioni sono tutte, in un modo o nell’altro, piene di buon senso. Aaaaah, orrore. Che ho detto, anzi che ho pensato e (poi) che ho scritto. E l’oppressione delle donne, il burqa, i kamikaze, l’inquisizione, le spose bruciate, le caste e chi più ne ha più ne metta (in ordine sparso)? Ok, ok, non dico che in nome delle religioni non si commettano crimini orribili, a tutti i livelli. Datemi un’idea e vi troverò mille estremisti. Ma. C’è un ma.

Vediamo la cosa da un altro punto di vista. Anni fa, in una conferenza particolarmente illuminante, mi fu ben mostrato come gli estremisti, di solito, non siano affatto gli esponenti più tradizionalisti di una specifica religione. Anzi. I fondamentalisti, in genere, si appellano a una riforma di presunto ritorno alle origini che si configura, nei fatti, come un’innovazione più o meno violenta rispetto alla consuetudini. Le tradizioni, religiose e non, hanno tanti limiti, per carità. Ma solitamente, nonostante quello che si crede, sono piuttosto sagge e flessibili. Non nel senso che si modificano, ma piuttosto per la loro tendenza inclusiva a riorganizzare in sé anche ciò che è estraneo e lontanissimo. Se il fondamentalismo esclude, la tradizione ingloba (non senza una certa misura di violenza, a volte. Ma non con le bombe). Guardiamo la tradizione religiosa italiana: in un sapiente mix di paganesimo e cristianesimo, abbiamo rinunciato proprio a poco. Culto dei serpenti incluso. Giusto una ripittatina, qualche santo qui, qualche Madonna là. Però allo stesso tempo ci siamo agganciati in tutto e per tutto al respiro sovralocale e sovranazionale della religione cristiana, creando una marea di equilibri nuovi in gamme assortite, per cui oggi si sentono cristiane persone che ben poco hanno in comune l’una con l’altra.

Lo stesso vale per l’Islam, per l’ebraismo, per il buddhismo, almeno nelle sue manifestazioni tradizionali, storiche, che hanno fatto del compromesso più o meno dichiarato il proprio punto di forza. (Banalizzo, eh? Lo so. Ma è per amore di argomentazione). I problemi vengono quando si cerca la coerenza, la consapevolezza piena del fedele o, in alternativa, la restaurazione consapevole del primitivo/originario. Qui l’ipercorrettismo è pressoché inevitabile. Di più: le religioni rivisitate sono, molto più di prima, ostili le une alle altre. Ciò che una sana pratica tradizionale poteva reinventare in chiave positiva (il film E ora dove andiamo? offre begli spunti, sia pure un po’ paradossali), una religione ripensata e rifondata non può che aborrirlo.

Qui mi spingo un filo più in là. Mi pare che nel cristianesimo, complessivamente, si richieda un sacco di ragionamento, consapevolezza, adesione se non razionale, almeno di sentimento. Questo, in soldoni, mi hanno sempre trasmesso al catechismo. Non dobbiamo ripetere come pecore, dobbiamo starci, capire, riformulare, fare nostro. Bello. Ma si rischia di trasmettere una visione equivoca della religione, secondo me. La religione non è un sistema di credenze per interpretare la realtà. La religione è l’indicazione di un percorso per entrare in rapporto con qualcosa che la nostra mente e la nostra esperienza non può, per definizione, cogliere né definire. Entrare in rapporto non è spiegare. Qui secondo me sta il buon senso delle tradizioni: l’idea che, in fondo, io faccio così, perché così mi hanno fatto di fare e perché molti insieme a me fanno così, e mi affido a questo. Non vado troppo oltre. Questo può essere ottusità, ma anche opportuna modestia.

Chi mi conosce sa che non sopporto il fatto che il politeismo antico venga puntualmente rappresentato come forma collettiva di idiozia di povera gente ignorante. Il fatto che a noi della mitologia greca siano arrivate quasi solo le caricature fatte da chi non ci credeva più, oppure che non siamo in grado di capire granché del complessissimo sistema degli antichi egizi, non ci autorizza a sentirci superiori. Questa stessa gente ha gettato insuperati presupposti della scienza moderna, non è che avesse l’anello al naso. Magari però aveva l’idea che per parlar dell’infinitamente grande il linguaggio della logica terra terra (tipo il principio di non contraddizione, per dirne una) non fosse sufficiente. Magari  il linguaggio e le associazioni erano ancora più libere, meno incasellate, più predisposte ad esprimere la complessità straordinaria di ciò che trascende. Per questo noi non lo capiamo (oltre che per il fatto che ci manca quasi tutta la documentazione diretta, ovviamente). Qui concludo con una piccola nota di scetticismo: io diffido sinceramente dei politeismi moderni, rifondati alla luce delle più svariate consapevolezze, siano etniche o di genere. Ho un profondo rispetto per il politeismo che ancora fa parte della nostra storia, che si traveste (appena appena) e ci accompagna, con saggezza millenaria, nei piccoli e grandi eventi della nostra vita: dalla pastiera (di cui ultimamente tanto ho letto, qua e ) alle tarantelle, dalle usanze funerarie e quelle di ogni singolo paese, che carica di senso valli, fonti, crepe di montagne e grotte marine. Non mi pare che abbiamo bisogno di organizzare sistemi religiosi alternativi, basati su studi scientifici (che notoriamente sono ben poco adatti a fondare religioni). Godiamoci i nostri poli-monoteismi con serenità e senza perdere di vista i messaggi centrali che nessuna religione nega e che poi, in buona sostanza, sono le regole di buon senso che dovrebbero ispirare il cittadino del mondo: giustizia, moderazione, compassione.

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