Ricordo un po’ confusamente un cartone animato dei tempi miei (avevo scritto antichi, per la cronaca), ambientato alla corte di Re Artù. In uno degli episodi Merlino arrivava trionfante dal sovrano, esclamando: “Sire, ho fatto una scoperta straordinaria! La nostra salvezza in caso di assedio! L’acqua in pillole”. “Interessante, Merlino” rispondeva il re. “E come funziona?” “Basta sciogliere una pillola in mezzo bicchiere d’acqua!”.
Quando, già un paio di anni fa, ho iniziato a leggere nei bandi del Fondo Europeo per i Rifugiati che si sarebbero finanziati studi di fattibilità e poi anche interventi diretti di supporto alla creazione di impresa da parte di titolari di protezione internazionale, eventualmente appartenenti alle cosiddette categorie vulnerabili (vittime di violenza estrema e di tortura, nuclei monoparentali, donne in stato di gravidanza, anziani, disabili), mi è tornata prepotentemente alla mente quella vignetta. Senza negare a priori che ci possano essere progetti altamente sperimentali con una buona percentuale di successo (non credo però a Roma, francamente), mi è parso di vedere dietro questa soluzione il tentativo di risolvere un problema limitandosi a spostarlo un po’ più in là. Chi ha difficoltà enormi ad inserirsi nel mercato del lavoro, specialmente in questa congiuntura economica, difficilmente sarà un brillante imprenditore. Non tutti gli stranieri, per il solo fatto di essere tali, sono geneticamente predisposti a gestire qualche lucroso import-export. I migranti forzati, poi, non possono contare di solito neanche su una solida comunità di riferimento. Hanno un bel dire, i sociologi, che nella storia lo straniero è mercante e il mercante straniero (si legge anche questo, nelle ricerche di riferimento). Mica parliamo dei fenici dei sussidiari. Altre sono le persone e soprattutto ben altro è il contesto economico. Per cui quando ti arriva una volenterosa signora ivoriana convinta di aprire un ristorante a Roma perché le piace cucinare (e alla domanda “che fornitori useresti?” risponde “andrei a fare la spesa a Piazza Vittorio”) hai il forte sospetto che non sia assolutamente il caso di incoraggiarla.
Un pensiero analogo mi veniva oggi mentre seguivo con la coda dell’occhio – in streaming – la Social Media Week di Torino, panel “SocialMom, Mamme in rete”. Durante il dibattito finale è serpeggiata la domanda fin troppo consueta che viene rivolta alle mamme blogger di chiara fama: “Quand’è che [bloggare] diventa redditizio?”. In filigrana si coglie un intero esercito di donne che con la maternità ha lasciato o perso il lavoro e che dunque vede nel web la possibilità di inventarsi un lavoro più conciliabile con la propria dimensione. Tutto è possibile, ma ho sempre pensato (e sono in questo confortata da un’autorità come Barbara Damiano) che mettersi in proprio non è affatto un ripiego comodo a un lavoro impiegatizio scomodo. Può essere certamente una via alternativa, ma solo per chi – passatemi la definizione un po’ approssimativa – ha la possibilità di scegliere. Poi chiaramente tra la blogger per mero diletto e l’imprenditrice del web ci sono le mille sfumature del lavoro free-lance, che può utilmente servirsi del blog come vetrina. Questa variante può essere in effetti una risposta all’assenza di reale conciliazione nel nostro Paese (non è una forma di conciliazione in sé, però). A una condizione: non avere un disperato bisogno di guadagnare. Quindi, a quanto ho potuto vedere, reinventarsi professionalmente attraverso il mommyblogging è possibile, ma non è un ammortizzatore sociale, un sostegno al reddito delle fasce più deboli. Può aiutare qualche professionista rimasta al palo a sperimentare vie nuove. Però non è la via della redenzione per tutte le donne che non trovano un lavoro o non hanno la possibilità di mantenerlo.
Insomma, guadagnare attraverso il blog per una mamma è come una pillola di acqua in pillole, da sciogliere in mezzo bicchiere d’acqua. Mandata giù così rischia di strozzare il volenteroso ingoiatore (o, più facilmente, la volenterosa ingoiatrice).
Ovviamente poi bloggare è altro e offre moltissimo. Potenzialità di sperimentare, di catalizzare idee, di esprimersi, di socializzare. Io adoro il mio blog e non credo potrei più rinunciarci. Però difficilmente rimpinguerà il mio conto in banca – e non mi sono mai aspettata che lo facesse.
Sarebbe un commento lunghissimo, quindi taglio corto. La mia opinione è questa: http://www.veremamme.it/2012/02/la-sfida-di-mettersi-in-proprio-parliamo-di-imprenditrici-non-di-mamme-imprenditrici/
Ora che me lo ricordi, questo tuo post mi aveva trovato assai d’accordo, Flavia.
Come ti dicevo ieri, sono proprio d’accordo, soprattutto con questo illuminante passaggio: non avere un disperato bisogno di guadagnare. Noi ogni giorno rifiutiamo incarichi di lavoro da chi ci scrive dicendo che ha un disperato bisogno di lavorare, e consigliamo: allora è meglio che prima trovi un lavoro vero, e poi porti avanti la tua idea imprenditoriale.