Stamattina, immortalando con l’androide scrauso il palo protagonista del post precedente, mi è tornato in mente un precedente illustre di miei spiaccicamenti. Dato che è proprio il tipico aneddoto da famiglia Peri, debitamente impanato da decine e decine di racconti orali non solo miei, ho pensato di farvene omaggio, a mo’ strenna natalizia.
Dovete sapere che all’attico del palazzo dei miei genitori, ai tempi delle mie scuole superiori, viveva una famiglia con un grosso dobermann nero. Era femmina e rispondeva al nome di Golia (non facciamo commenti sulla cultura biblica dei padroni di casa. O forse, mi viene in mente solo ora, intendevano proprio la caramella, quella che chi non la mangiava era un ladro o una spia). Golia mi detestava cordialmente. Una volta che, anni dopo, ci comunicarono che l’animale stava male, io me la sono immaginata in fin di vita sulla sua trapunta imbottita e la padrona che scendeva a scampanellarci per chiedermi di salire al suo capezzale per esaudire l’ultimo desiderio della povera Golia: sbranarmi. Ma non divaghiamo.
Era autunno e io avevo da poco iniziato la prima liceo (classico). Tornavo verso casa assorta in profonde riflessioni sulla filosofia platonica. Talmente assorta che sono andata a stampare la parte alta della fronte (altezza attaccatura dei capelli) contro la serranda sporgente di una casa. Un male allucinante. Completamente tramortita, mi trascino fino a casa e chiamo l’ascensore. A quel punto mi affianca la sagoma nera di Golia, comprensiva di proprietaria inguainata in stivali di pelle scura, aggressivi quanto il dobermann. Aspettiamo in silenzio che l’ascensore arrivi. Salgo, salgono. Io a quel punto mi passo una mano sulla fronte e la ritiro grondante di sangue. Evidentemente la serranda mi era rimasta ben impressa nel cuoio capelluto.
Al dobermann brillano gli occhi e inizia a ringhiare. L’affabile proprietaria, forse non cogliendo esattamente la dinamica del tutto, riapre la porta dell’ascensore e mi fa: “Ti dispiace scendere? Sai, mi innervosisci il cane…”. Io obbedisco come un’idiota (che sono, ed ero già allora) e mi inerpico faticosamente per cinque piani di scale. Vengo a quel punto raccattata in lacrime da mia sorella, che mi porta al pronto soccorso. Non era una cosa grave: se lo fosse stata sarei morta dissanguata, visto che un medico mi ha dato un’occhiata di sfuggita solo sei o sette ore dopo. Antitetanica al volo e via.
Di Golia avevo rimosso ogni ricordo, così come dell’aneddoto surreale che vado ora a condividere con voi. Serviva un palo sul naso per rinfrescarmi la memoria. Converrete che sarebbe stato un peccato perdere nell’oblio una storia tanto edificante di buon vicinato.
Errata corrige
La sorella che ha aperto la porta mi fa giustamente notare che il dolce quadrupede non si chiamava Golia, ma Duca. Duca, femmina. Il che, vedete, non lascia ai proprietari neanche l’alibi della liquirizia. Golia pare che fosse un altro astuto cane che si è illustrato per essersi buttato giù dalla torre di un convento, ma io confesso che questa storia non la ricordo bene e magari un giorno ve la racconterà lei. Duca, sebbene odiasse me in particolare, si era illustrata anche con lei. Nella stessa area pre-ascensore che faceva da scenario a molti dei nostri incontri, il dobermann le era scivolato silenziosamente accanto aveva stretto un polso tra i denti. La simpatica padrona aveva osservato: “Vuole solo giocare. Basta però che non sposti il polso, altrimenti finisce che ti fai male”. No comment.
Spero vivamente che Golia sia uno di quei doberman impazziti che hanno sbranato la padrona (e poi l’hanno fatta franca, se no non vale).
Ma va’ che stronza…