Sul bagnato

Ci scatta uno strano meccanismo per cui, quelle volte che vediamo un rifugiato o una rifugiata che “ce l’ha fatta”, che vive qui cavandosela discretamente bene, che comincia a venirci a trovare per raccontarci di progetti e di prospettive e non solo di problemi e affanni, a quel punto – senza confessarlo apertamente – vorremmo, pretenderemmo che quella persona e i suoi cari fossero immuni da qualunque altra disgrazia. Hanno già dato, come si suol dire. E invece non è così, perché la vita non fa sconti a nessuno. A ogni lancio di dadi, si ricomincia da zero.

Lei la conosciamo da anni. Abbiamo apprezzato la sua tenacia, la sua determinazione. L’abbiamo vista testimoniare con dignità assoluta nelle scuole, tentare l’impossibile per tornare a fare l’infermiera, rialzarsi mille volte dopo una sequenza infinita di rifiuti e porte chiuse. Tornare a lottare da capo per altri suoi familiari che dovevano essere messi in salvo. Ma nel frattempo, anche, ricostruirsi e prendere sicurezza, fino ad arrivare a progettare una piccola attività di catering. La scorsa primavera, a un incontro pubblico organizzato dal Centro Astalli, ha spiegato in poche frasi – a me e a tanti altri – che cos’è un campo profughi.

Suo nipote, 15 anni, sabato scorso a Roma ha avuto un banale incidente in piscina. Pare che resterà paralizzato. Certo, può succedere a qualunque famiglia. Ma il fatto che sia successo proprio a questa continua a sembrarmi ancora più inconcepibile.

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