Mattina presto alla Chiesa del Gesù, a Roma. Oggi il Papa celebra con i gesuiti la festività di S.Ignazio. Un’occasione anche per noi collaboratori della Compagnia. Non proprio un incontro per pochi intimi, ma comunque relativamente ristretto. Il pensiero ci ha emozionato e divertito le scorse settimane. Tra il serio e il faceto ci siamo interrogate sul look e sul dress code (indovinate chi ha risolto i miei dubbi? Vabbè, lo so, divento monotona). Tutti i partecipanti erano carichi di attese, si aspettavano il Papa spumeggiante che intrattiene i giornalisti sul volo dal Brasile a Roma. Persino padre Libanori, “padrone di casa”, ha fatto riferimento all’esuberanza del Papa: non sono previsti saluti particolari, ma hai visto mai.
Anche in questo, Papa Francesco ci ha stupito. Il registro oggi era tutt’altro. Forse era stanco, forse era sofferente. Forse, semplicemente, l’occasione oggi era molto diversa. “Tu pensi come un gesuita”, gli ha detto scherzando padre Adolfo Nicolàs, il Padre Generale (sì, dandogli del tu). Già, ma come pensa un gesuita? Forse pensa che c’è un tempo per l’entusiasmo e uno per il raccoglimento.
La predica è stata piana, pacata, anche se piena di linguaggio gesuitico (ovviamente). Ha insistito sulla modestia, sullo sforzo di non mettere se stessi e le proprie idee al centro. Questa immagine di essere sempre “spostati”, decentrati, radicati nella Chiesa (“non esistono cammini paralleli o isolati: cammini di ricerca, cammini creativi sì. Per andare verso le periferie ci vuole creatività”) suonava quasi un “errata corrige”, pronunciata sotto lo splendore aureo e trionfale della Chiesa del Gesù.
Secondo me il tema portante di questo discorso di Papa Francesco, il vero filo conduttore, è stata la fatica, la stanchezza, la sofferenza, lo scoraggiamento della “sequela quotidiana”. Non la disperazione, naturalmente. La vergogna di non essere all’altezza, che è addirittura una grazia da richiedere, in un quadro di “continuo colloquio di misericordia” con Dio. Un’immagine forte: trovare “l’armonia del nostro cuore nelle lacrime”. E ancora, l’umiltà: “siamo come vasi di argilla fragili e insufficienti, con dentro un tesoro immenso”, quello della grazia del Signore che opera attraverso di noi, se lo consentiamo.
Poi Papa Francesco diventa più intenso. Parla di tramonti, di tramonti della vita, e lo fa attraverso quelle che definisce “due icone”, S. Francesco Saverio e Pedro Arrupe. Il Santo nobile, amico di Ignazio, arrivato alla fine, “senza niente”, davanti al Signore. Pedro Arrupe, l’ultimo colloquio pubblico in un campo profughi, l’invito a pregare: poi l’ictus, sul volo del ritorno, e il suo “lungo tramonto esemplare”. “Chiediamo la grazia”, ha detto il Papa “che il nostro tramonto sia come il loro”. Per un attimo pare (non so se solo a me) che pensi soprattutto al suo.
Chi si aspettava una celebrazione festosa dei successi della Compagnia sarà rimasto deluso. La sensazione era quello di una sorta di capovolgimento di registri. Anche le due “icone” citate sono personaggi che, agli occhi del mondo, più vistosamente di altri, sono stati dei perdenti. Mi veniva continuamente in mente la frase di San Paolo: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.”
Ho pensato alla prima volta che ho letto, tanto tempo fa, lo “slogan” dei gesuiti: ad maiorem Dei gloriam (sono state anche le ultime parole dell’omelia di oggi). L’equivoco è sempre dietro l’angolo. Quella gloriam, per giunta maiorem, fa pensare a noi ignoranti alla magnificenza, agli ori barocchi, alle vittorie. Ma la gloria di Dio non è la gloria degli uomini. Quale che fosse il motivo di questo “tono minore” di Papa Francesco oggi, credo che fosse molto intonato alla ragione che io avevo di essere lì. Con fatica e tanti scivoloni dolorosi, cerco di andare avanti, restando sempre dalla parte dei perdenti.