Un ragazzo mi chiede un’informazione. Chissà se crede che sia una professoressa. Cammino per il viale che mi ha visto prima ragazza e poi giovane, con addosso la giacca della laurea (“Che tristezza”, ha commentato Nizam). Procedo a grandi passi verso quello che una volta era il mio luogo naturale. Ricordo che un giorno entravo da quel cancello di piazzale Aldo Moro con mio cugino, ingegnere. E gli ho detto: “Io qui, solo qui, mi sento al mio posto. A casa”.
Con un certo gusto indugio sulle fontane su cui mi sedevo con il fidanzato dell’epoca a mangiare uno yogurt per pranzo (una brevissima stagione in cui vivevamo d’aria e di baci), guardo il piazzale dei telefoni a scheda adesso vuoto, rimando leggermente l’ingresso in facoltà.
Ieri tornavo all’Università La Sapienza da relatrice. Non era la prima volta che mi sedevo da quella parte del tavolo. Ma era la prima volta che lo facevo senza avere la sensazione di fare un passo indietro. Per anni ho oscillato come un pendolo tra la “vecchia vita” accademica e la vita attuale. Anni in cui mi sentivo un po’ supereroe e un po’ in difetto. Perché poi il tempo ti frega e la vita vecchia non camminava più (e ogni volta che mi ci rituffavo, per brevi incursioni lampo, sapevo di essere inadeguata), mentre la nuova corre al punto che a un certo punto non sei più quella di prima.
Negli stessi locali in cui entravo ieri in tarda mattinata ho preso l’ultima porta in faccia della mia carriera accademica, la più difficile di tutte, anche se in un certo senso la più ovvia. Durante la pausa pranzo sono andata in pellegrinaggio lungo il “mio” corridoio. Ho guardato la finestra su cui ero seduta quando ho risposto, impertinente e spavalda, a quello che forse sapevo già che sarebbe stato il mio maestro. Ho guardato gli scaffali polverosi, accarezzati e amati per tanti anni da studente, da studiosa, da borsista della biblioteca. Ho letto i cartelli affissi sulle porte delle aule, registrato metodicamente tutti i cambiamenti, antichi e recenti. I lutti, per quanto li si elabori, restano sempre lì, parte della tua anima. Questo, sicuramente, mi ha reso più forte.
“Dovevi andare, è stata una rivincita”, mi ha scritto una mia amica a proposito dell’invito di ieri. No, non è stata una rivincita. Non erano certo gli ex colleghi che mi hanno invitato su cui avrei dovuto “rivalermi”, ammesso e non concesso che un torto mi sia stato fatto. Certo che ieri, mentre parlavo del JRS e del Centro Astalli al tipico consesso accademico, mi veniva in mente il mio maestro e una delle sue frasi più infelici. Avevo finito il dottorato, lavoravo già al Centro Astalli e in un altro centro di accoglienza (attaccando alle prime luci dell’alba). Nonostante ciò, insistevo a mantenere il part-time per continuare “a esserci”. Aiutavo con gli esami, consigliavo laureandi, facevo presenza per la cattedra e per la gloria del Vicino Oriente Antico. E lui, una mattina, mi disse: “Hai finito il dottorato già da qualche mese, sarebbe ora che la piantassi di startene in vacanza”. Vacanza. Ha detto proprio così. Perché tutta la fatica, fisica e emotiva, di imparare da capo un mestiere diverso, nei sui radar non entrava affatto. In un certo senso, era in buona fede. Ma io ero già lontana, lontanissima, e ancora non lo sapevo. Ecco, forse dal dolore di quella frase, ieri, mi sono riscattata.
In quelle mura di lettere ho avuto stima, tonnellate di stima e di riconoscimenti. Spesso, ingrata e arrogante, non sapevo che farmene. Li davo per scontati. Ho avuto le prime frustrazioni importanti e definitive. Ho imparato a mie spese, ho giudicato di impulso, ho fatto scelte di cui potrei pentirmi oggi se non appartenessero a un’altra dimensione. Ho vissuto pienamente la giovinezza e l’ingenuità di cambiare il mondo a suon di storia antica. Ho imparato quello che adesso è parte di me. L’abilità più cara, che ancora mi è preziosa, è il gusto, il piacere e l’arte di parlare in pubblico. Ma anche il trasporto di fare lezione con tutta me stessa.
Scusate questo excursus, che parla più a me stessa che a voi. Oggi faccio altro e in parte sono altro. Però della passione, nella vita lavorativa, non riesco a fare a meno. Oggi so (non l’avrei mai immaginato) che è anche un limite, ma preferisco pensare che sia un punto di forza.
Sai ,a me questo discorso del “maestro” per proseguire la carriera accademica mi è sempre sembrato improbabile. Si può cambiare ,si possono tentare concorsi per altre cattedre.Non si diventa di “proprietà” di un professore sol perché si è seguita di più la sua materia e le attività della sua cattedra.
Io ho avuto un maestro assolutamente non finalizzato alla carriera accademica (come peraltro si è visto). Era maestro perché per me è stato tale, indiscutibilmente, da subito. Anche quando non gli rivolgevo più la parola non mi è riuscito, come mi era richiesto (forse per avere qualche “possibilità”), di rinnegalo. Il maestro in questione mi ha consigliato di laurearmi con un altro professore, avrei avuto più possibilità. Oggi vedo in quel consiglio l’unico sensato che mi abbia mai dato. All’epoca però, a 21 anni, non potevo capirlo. Il maestro era ed è sempre stato lui, nei fatti. Quando sei giovane e idealista, contano solo quelli. Il futuro, le strategie, la saggezza molto meno.
Forse parli del mio stesso maestro. Mi hai portato indietro nel tempo.
Certo, Rachel!
Questo tuo post mi tocca molto, sopratutto in questo momento in cui ho preso la decisione (un po’ forzata dalle circostanze ma anche in parte libera) di andarmene anche io verso nuovi lidi e abbandonare il carrozzone.
Le nostre storie saranno molto diverse ma credo che il senso di appartenenza, l’affetto per i luoghi e alcune tra le persone, la passione per il lavoro e l’entusiasmo nel trasmettere le conoscenze siano le stesse……e sono il motivo per cui tu forse hai “altalenato” tra dentro e fuori e io sono rimasta qui, nonostante tutto, per questi anni.
Ma credo che ad un certo punto sia giusto staccarsi, e cercare di impiegare le forze in qualcosa di -ahimè- più utile…come fai sicuramente tu e come spero di iniziare presto anche io!
grazie per le tue riflessioni
Io, che ti ho conosciuta quando già eri “in vacanza”, ho respirato di te l’energia della voglia di cambiare il mondo con la storia antica e la passione del Centro Astalli: non saprei pensarti senza nessuna delle due. Tu solo le hai sapute intrecciare a modo tuo: e la loro onda arriva lontano…
Un abbraccio, Elisabetta
Sono tredici anni che non attraverso lo stesso corridoio da cui sono uiscito con l’onore delle armi il giorno di S. Elia profeta e ripassarci fisicamente mi creerebbe un sano straniamento brechtiano. Ormai, appartengo anch’io a un altro mondo e il fatto di continuare a scrivere per la bellezza crea un universo parallelo. Ogni tanto mi viene voglia di scrivere di quegli anni, del tuo maestro (mio a mezzadria) e del mio che era di ollimpica e ormai di beatissima inettitidudine..Alcuni tipi e alcuni fatti meriterebbero, però, una descrizione, a futura memoria (poi leggo “i Fantasmi ritrovati” di Levi della Vita e la voglia mi passa..), forse per concludere, con Flaubert, che le cose migliori le abbiamo avute per caso.
ovviamente un abbraccio e un saluto francesco
Concordo, Francesco, anche io a volte credo che certe cose meriterebbero di essere raccontate. Un abbraccio anche a te