Ricordo una lettura del primo anno dell’università, intitolata: “Assiriologia. Apologia di una scienza inutile”. Se c’era una persona convinta dell’assoluta importanza degli studi di nicchia, quella ero io. Forse, in un angolino del mio cuore, lo sono ancora. Le cose inutili sono spesso belle, gustose, sfiziose. Il fascino dei sentieri non battuti appaga di per sé e ripaga di solito dalla vaga sensazione – che talora si affaccia – di essere fuori da quelli meglio frequentati non per scelta, ma per insufficienza o per incapacità.
Vengo da un paio di giorni intensi di convegno dove, forse per la prima volta, ho avuto la netta sensazione che avrei fatto meglio a non andare. Io li amo, i convegni. Ne ho organizzati anche alcuni, sui temi più improbabili. E allora perché questo disagio fastidioso, questa sensazione di essere un marziano tra quegli accademici, pur affabili, che al contrario parevano spassarsela abbastanza (come facevo io, ai tempi)? Forse la prima considerazione è che mi sentivo in colpa per essere stata invitata a parlare a quel tavolo. Non sono un tipo particolarmente modesto e non è che mi sentissi, di per sé, inferiore agli altri relatori. Semplicemente, non ero la persona giusta da invitare. Forse una decina d’anni fa lo sarei stata, forse nemmeno.
“Tutto è lecito, ma non tutto giova”. Sentire citare questa frase da una delle relatrici mi ha lasciato con la sensazione che forse il punto era proprio quello. Onestamente se il convegno fosse stato sui culti fenici o su questioni più proprie al mio io di accademica improbabile, non so se avrei avuto la stessa sensazione. Ma mi sa proprio di sì.
Sarebbe stato più utile e mi avrebbe giovato di più andare a parlare di rifugiati a un paio di persone in un comune della Valtellina. Con buona pace di José de Acosta, a cui va tutta la mia umana simpatia.
Uh, leggo con oltre un mese di ritardo ma deve esserci qualche strana congiunzione astrale visto che proprio stasera parlavo di te e della possibilità di farti venire in Valtellina per parlare di rifugiati… 🙂