Attaccamento

Sento il bisogno di sdrammatizzare una mattina di formazione un po’ ansiogena, in cui tra me e me mi chiedevo se sono stata e sono in grado di dare a mia figlia quell'”attaccamento sano” da cui, a sentire psicologi e psichiatri, pare che dipenda in larga misura la sua stabilità futura. Per associazione di idee, uno di quei salti logici (forse da evitamento, chi può dirlo) che alla fine ti salvano la vita, mi è subito dopo venuto in mente a un attaccamento diverso, su cui rifletto da un po’. Avrete forse notato anche voi che spesso oggetti significativi, preziosi o anche solo emotivamente rilevanti manifestano una fatale attitudine a rompersi, perdersi, essere rubati. Sono certa che ciascuno di noi potrà facilmente condividere due o tre di questi piccoli (o grandi) lutti: l’anello della nonna caduto nel tombino, la prima scarpetta della bambina masticata dal cane di casa, il fazzoletto con cui lui si è soffiato il naso alla prima uscita dilaniato dalla lavatrice. E così via, di evento improbabile in evento improbabile.

Ma c’è un rovescio della medaglia. Gli oggetti più brutti, più insignificanti, quelli che segretamente speriamo che si dissolvano da sé dimenticati su una mensola, sono quelli che si attaccano tenacemente alla nostra vita, tanto da diventare testimoni durevoli della nostra esistenza. Non si rompono, non si perdono, nessuno ce li ruba e nessuno li prende nemmeno in prestito. Nel mio caso, questi oggetti sono sopravvissuti senza batter ciglio ai miei più profondi sconvolgimenti esistenziali nell’unico modo a loro possibile, in qualità di oggetti inanimati: fregandosene bellamente.

Con gli anni si sono persino guadagnati il mio rispetto. Penso ad esempio a una zuccheriera con la scritta “Ricordo di Sant’Agata dei Goti”. E’ in ceramica, viene usata quotidianamente, è dotata persino di un coperchio che potrebbe cadere separatamente e spezzarsi. Invece nulla, resiste strenuamente. Il ricordo della circostanza in cui mi è stata regalata (dalla mia ex suocera) è ormai sbiadito al punto da essere a stento riconoscibile e comunque irrilevante. Lei però mi guarda muta ogni mattina e ogni volta che mi viene voglia di bere un tè.

Lo stesso vale per due grossi barattoli da cucina in cui tengo il sale (o, piuttosto, in uno dei due tengo il sale fino; l’altro, destinato a quello grosso, resta solitamente vuoto e quindi ancora più inutile). Me li regalò per il mio matrimonio un compagno di liceo che, se non erro, neppure ci venne. Ancora oggi i contatti con lui, giornalista di fama, sono men che sporadici. Non saprei neppure dire se quei barattoli siano stati all’epoca scelti davvero da lui, o piuttosto da sua madre, in virtù della partecipazione ricevuta. Fatto sta che lì sono, sopravvissuti a traslochi e a risistemazioni sentimentali e esistenziali. Come abbiano fatto i bellissimi bicchieri di plastica verdi, regalati da una cara amica in occasione della nascita di Meryem proprio in quanto potenzialmente indistruttibili (“Diventano Velociraptor, crescendo, dammi retta. Questo ti serve, altro che trine!” – e aveva assolutamente ragione), a dissolversi quasi tutti nel nulla resta un mistero che contraddice le più elementari leggi della fisica. Ma i barattoloni ingombranti e inutili restano lì, a memoria eterna di se stessi e forse anche di una me ormai in parte superata.

Potrei continuare, naturalmente. Se vi va, fatelo voi.

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