Da quando ho scritto lo scorso post mi gira in testa un pensiero, che non riuscivo a tradurre in parole. Poi ieri sono andata alla presentazione di un libro molto speciale, di cui forse vi parlerò più diffusamente e forse no (per ora lo vedete nell’immagine qui a fianco) e padre Giovanni Ladiana ha tradoto quel pensiero confuso in una frase precisa e tagliente.
“Se mi chiedo cosa devo fare, finisco per cercare la risposta nelle urgenze. Piuttosto mi devo chiedere cosa muove il mio cuore nelle cose che vedo, che penso, che scelgo e anche che faccio. Cosa mi consente di non cedere alla tentazione di far dettare la mia vita dalla paura, dalla rabbia, dalla ndrangheta. In mano a chi ho messo la mia coscienza. Cosa, pur nella tenebra fitta, continua a far luce dentro di me”.
Mi sono ricordata di cosa ha scritto una mia collega del JRS in Siria:
Spesso mi chiedono se non trovo deprimente lavorare per il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS) in questo contesto. Per certi aspetti, se io lo permetto, lo può essere. Il contesto in cui lavoriamo è tutto meno che spensierato. E’ facile sentirsi sopraffatti da un senso di fallimento, dolore e lutto per ciò che abbiamo perso, come comunità mondiale, per come abbiamo deluso il popolo siriano.
Di solito quando mi sento così, succede qualcosa – una conversazione, una mail, un incontro casuale – che mi ricorda che ho il privilegio di lavorare con persone che sfidano ogni giorno questa follia. Loro mi ispirano, anche dopo quattro anni della stessa violenza insensata. In tutta la regione, i miei colleghi stanno lavorando senza sosta per distribuire aiuti umanitari essenziali, istruzione, supporto emotivo, assistenza e soprattutto speranza a chi soffre ed è minacciato quotidianamente dalla banalità della morte.
Lo fanno senza lamentarsi, senza chiedere molto. Lo fanno perché credono che sia loro dovere di cittadini nei confronti di altri cittadini come loro. Anche se siamo tutti diversi per fede religiosa e nazionalità, condividiamo una profonda fede nella nostra comune umanità.
Padre Giovanni ieri parlava di Reggio Calabria come di un contesto in cui ogni possibilità al momento è chiusa, completamente. Padre Nawras, un altro gesuita straordinario di cui vi ho parlato qualche volta, oggi della Siria parla così:
In tutta onestà, è come se fossimo stati più vicini a una soluzione nel 2012/2013 di quanto non lo si sia adesso nel 2015. Sia l’inizio, sia la fine di questa follia sono due punti così distanti che ora come ora non vediamo altro davanti a noi se non oscurità senza fine.
Che speranza abbiamo?
Per i nostri figli – nessun futuro da offrire.
Per i nostri anziani – lapidi senza nome, case vuote, il dolore di seppellire i figli.
Per noi – solo esistenze distrutte.
(La sua lettera completa, da leggere per intero, lo trovate qui).
Ho letto poche pagine del libro di padre Giovanni. Nelle prime pagine lo si descrive su uno scoglio a picco sul mare, vicino Catania, intento a pensare, a ricomporsi, a permettersi di avere dubbi e anche paura. A ricordare a se stesso che se si hanno i piedi ben piantati a terra, come spesso le persone assennate esortano a fare, non si potrebbe muovere un passo. Si resterebbe inchiodati sempre nello stesso punto. Bisogna avere le mani a terra e i piedi in cielo.
Ieri Giovanni ha ricordato di quando, dopo il martirio dei gesuiti in Salvador, chiese a Pedro Arrupe di essere mandato là. Lui, come altri gesuiti entusiasti, che si sono riconosciuti sempre nei documenti coraggiosi di quella congregazione generale 32 che parlava di giustizia come parte irrinunciabile della missione di un gesuita e di un cristiano. Padre Arrupe rispose a quei giovani che si rallegrava che, mentre tanti chiedevano di lasciare la Compagnia, ci fossero altri che invece trovavano rinsaldata in quel martirio la loro vocazione e poi ricordava che si può dare la vita in un momento, ma anche dare la vita in ogni momento, tutta la vita.
Non tutti siamo chiamati ad essere eroi. Certamente tutti troviamo noi stessi, la nostra dignità e anche – ne sono convinta – la nostra felicità nell’essere uomini e donne che non abbassano la testa. Non si tratta necessariamente di chissà quale disobbedienza e obiezione di coscienza. Il più delle volte ci è chiesto solo di non tenere gli occhi bassi e fissi sulla nostra quotidianità, più o meno grigia, e di ricordarsi di guardare anche l’orizzonte.
Cosa muove il nostro cuore?