Parliamo di passione

Questi giorni mi hanno portato, ancora una volta, alla mia vita passata di ricercatrice, che però ormai vedo con lo sguardo del presente. Ne vedo la limitatezza, ma anche le potenzialità. Vedo quello che non sono, che non siamo riusciti a fare. Ma anche quanto di buono abbiamo fatto, o almeno quanto abbiamo intuito.
Questo post doveva essere una esposizione sobria delle mie critiche e della forma più evoluta delle mie recriminazioni, elaborate durante la mia ultima visita al CNR.
Ma poi ho cambiato idea. Penso che valga la pena capire cosa è davvero rilevante e cosa mi addolora vedere in ombra (perché no, non manca affatto, anche se non sono lì a parteciparne): la passione.
Passione non è il godimento solitario di rifugiarsi nella confort zone delle proprie elucubrazioni incompresibili ai più. Anche questo ho provato, nella mia vita accademica. È rassicurante, ma pericoloso e, a lungo andare, fatalmente sterile. Ho visto molte menti spettacolari, primo fra tutti il mio maestro, chiudersi ermeticamente in un mondo di studio isolato che degli anni gloriosi del passato non è che la caricatura.
Cosa ha reso incisivi e esaltanti gli anni della mia formazione? Probabilmente l’idea che ci fosse qualcosa di importante da fare, molte cose nuove da capire, ma anche metodi da cambiare, teorie da confutare, inganni da smascherare. E persone che, come me, erano pronte a lanciarsi nell’impresa. “Ci mangiavamo il mondo”, mi è venuto da dire pensando a quegli anni.
Vi parrà paradossale. Del mondo, si può ben dire, non sapevamo nulla o quasi. Col mondo mi confronto adesso, eppure non riesco a pensare che quello zelo fosse inutile. Perché la capacità di affinare il punto di vista, di mettere in discussione anche i vocabolari, di allenarsi a non prendere per buono a priori quasi nulla resta una competenza rara e essenziale che abbiamo praticato in una palestra d’eccezione.
Non so però se davvero siano stati i nostri maestri,  o piuttosto la memoria mitica della loro gioventù allora meno lontana, a portarci a pensare che si potevano cambiare le cose. Un’interpretazione, un libro di storia, l’università.
C’è chi ha vissuto gli anni della Pantera nella biblioteca di orientalistica. La biblioteca anche per me è stata per anni il simbolo dell’impegno a servizio del bene comune. Poi, anni dopo, i convegni autogestiti.
Non tutto ha funzionato, evidentemente. Ma siamo stati gentili e abbiamo avuto coraggio (sì, come la Cenerentola di Kenneth Brannagh).
Oggi ho saputo che uno dei nostri “maestri” ci ha lasciato. Venerdì ne ho visti altri, verso la pensione, non senza qualche sbandata celebrativa dei bei tempi andati.
Ma io penso ai tempi che devono venire e mi piacerebbe dire ai miei amici che quel mestiere lo fanno davvero (almeno una so che mi legge) che non bisogna arrendersi alla stanchezza e allo scoraggiamento. Forse il mio lavoro attuale non è poi tanto diverso dal loro. Bisogna essere costantemente animati dalla fede nelle imprese impossibili e da un pizzico di incoscienza. Soprattutto non smarrire il senso ultimo, anche delle attività meno straordinarie.
Perché il senso ultimo c’è, ed è esattamente quello che ci fa battere il cuore, ci fa discutere animatamente, ci fa piangere la sera da soli e qualche volta anche in pubblico.
È bastato un pomeriggio per ritrovarmi a pensare più del dovuto a Sid Addir e a Sardus Pater, con tutta l’impazienza e la prepotenza della me studiosa, di cui forse non mi libererò mai. Ma il momento più commovente è stato quel ricordo della Siria nelle parole di un’antichista. È vero, anche i periodi remoti in cui ci tuffiamo hanno avuto le loro stragi, i loro massacri per cui non possiamo provare pietà o empatia. Ma la tragedia di oggi ci ricorda chi siamo e qual è il senso ultimo di tutte le nostre missioni: promuovere insieme a altri la nostra umanità comune, in tutta la sua insondabile ricchezza di conoscenza, condivisione, comprensione e mistero.

4 pensieri riguardo “Parliamo di passione”

  1. ti seguo da tempo, non ho mai commentato; colgo l’occasione di farlo in questo post per quanto lo sento vicino. passione: forse davvero l’unica chiave che mi tiene ancora legato al mondo accademico della ricerca dopo quindici anni di precariato.
    hai espresso l’idea in modo molto, molto bello. ci tenevo a dirtelo.

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