Nessuno

Ieri sera, a un seminario organizzato dal Centro Astalli, uno dei relatori ha fatto riferimento a un’esperienza purtroppo comunissima: un rifugiato va a uno sportello di orientamento al lavoro (o simili) e, visto che i suoi titoli di studio non sarebbero comunque spendibili in Italia (perché non ha con sé gli originali, perché sarebbe troppo complesso e costoso farli convalidare e, il più delle volte, non servirebbe comunque a nulla) si vede scrivere, alla voce “titolo di studio” un laconico “nessuno”.

Mi sono ricordata di C., una donna congolese che ho incontrato in ufficio. Ho ripensato alle sue parole che descrivevano quell’esperienza, così come l’aveva vissuta lei. Bisogna sapere che C. in Congo era un magistrato, figlia di un giudice. Una passione di famiglia, coltivata con anni di studio e molta determinazione. C. è una donna abituata a porsi grandi questioni e a sposare principi alti e complessi. Questo aveva ovviamente a che fare con le circostanze che l’hanno costretta alla fuga.

Quella signora allo sportello, in buona fede, credeva di svolgere coscienziosamente il suo lavoro. Da un certo punto di vista, quanto è spendibile una carriera di magistrato in Congo, una volta sbarcati a Roma? Semplicemente non vale nulla. C. nella sua nuova dimensione è semplicemente una donna africana come un’altra, che può aspirare a fare le pulizie, la badante o, se ha caparbia e fortuna a sufficienza, qualche altro mestiere di cura leggermente più qualificato. “Titolo di studio (sottinteso: di una qualche utilità): nessuno”. C. ha giustamente vissuto quella etichettatura impropria come una violenza. A lei come rifugiata, ma prima ancora a lei come donna e come essere umano. Non si deve sottovalutare il trauma del cambio di status sociale, sottolineava ancora il relatore di ieri (Marco Catarci, dell’università di Roma 3). Certo conta più quello dei sapori e persino più della lingua, che pure spesso vengono evocati per spiegare presunte “difficoltà di integrazione”.

Oggi che non sono più tanto giovane, immedesimarmi con queste donne e uomini che arrivano con storie lunghe alle spalle comincia ad essere meno difficile. Se si tratta di donne, in qualche modo la faccenda mi pare ancora più tragicamente ironica. Una donna rifugiata, solitamente, ha un bagaglio di ideali, determinazione e competenze acquisite sul campo che in una società come la nostra sarebbero più che mai necessarie. Una donna rifugiata, spesso, ha già molto combattuto. Come donna, come cittadina, come straniera. Eppure la prima cosa che chiediamo loro di imparare è annullarsi, sorridere, mostrarsi umili e, se per caso sono colte, nasconderlo accuratamente. Non avere pretese e andare ad occupare il cantuccio che, a certe condizioni, non è impossibile riservare loro ai margini della nostra società.

Il contesto non può non incidere, si diceva ancora ieri sera. Un contesto difficile per i giovani, per i lavoratori, per i bambini, per gli anziani, per i poveri… Ma certamente, in media, più violento per le donne, qualunque sia la loro storia.

1 commento su “Nessuno”

  1. A me questo tuo post ne fa venire in mente un altro precedente, a proposito di riconoscimento. Che è una delle cose immateriali (non parlo di contraccambio economico, ma proprio di quell’interazione sociale che significa: ti vedo) che però può cambiare la qualità di una giornata, di una scelta, di una vita. Sotto c’è la domanda “chi sono?” “Chi sono per te?”, che contiene anche lo specchio di quello che sono per me. Chissà perchè si sottovaluta così facilmente questo aspetto, che invece è così profondamente costitutivo delle relazioni umane (e lo penso anche in riferimento alla mia passata esperienza di educatrice d’infanzia).
    Un abbraccio, Chiara!
    Elisabetta

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