Come scriveva l’architetto Giovanni Michelucci già 25 anni fa in una lettera a Padre Balducci per un convegno a Firenze sulla città, l’ospitalità non nasce solo da un dovere di accoglienza, ma dall’esigenza di un progetto di revisione della città, alla luce delle situazioni d’incontro nuove. L’architetto, partendo da due metafore, la città carcere e la città tenda, scriveva: “La città carcere e la città tenda non sono solo dei luoghi identificabili nello spazio, sono due metafore che stanno ad indicare tutto ciò che nella città esiste come edificio, talvolta perfino di pregevole fattura , senza per questo avere con la città alcun rapporto attivo, rappresentando anzi la negazione della città”. E concludeva il noto architetto: “la sfida che propongo alla città attuale è dunque la sfida di saper accogliere al suo interno i diversi di ogni tipo, non per dovere di ospitalità, ma come speranza progettuale… Il modello di una società civile che accetta dentro di sé il diverso, come ipotesi positiva di cambiamento rappresenta di fatto una cultura superiore rispetto agli equilibri militari che ci sovrastano. La società del sospetto, dell’isolamento con cui sono regolate le nostre città rappresentano purtroppo un’agghiacciante analogia a quegli equilibri”. (G. MICHELUCCI, La città tenda e la città carcere; in: La sfida delle città, Atti Convegno testimonianze, 19-20 dicembre 1987, Firenze, pp. 132-134).
Invitare monsignor Perego, Direttore generale della Fondazione Migrantes, alla presentazione del Rapporto Annuale del Centro Astalli si è rivelata un’ottima idea. Non solo ci ha offerto delle considerazioni importanti e documentate sulle migrazioni forzate in Europa, oggi e nella storia, ma decisamente è riuscito a dare respiro alla riflessione, con spunti come quello che mi interessa oggi. Accogliere “i diversi di ogni tipo” non solo è un’esigenza logistica emergenziale, da dare in gestione alla Protezione Civile o a qualche addetto ai lavori: è una sfida concettuale, è una sollecitazione culturale e politica nel senso più ampio e alto del termine. Questo passo del discorso di Perego, che se siete curiosi trovate qui (purtroppo senza le molte integrazioni e sottolineature che ha aggiunto oralmente, nel corso dell’esposizione), mi ha richiamato un documento molto diverso, letto qualche giorno fa sulla pagina Facebook di alcuni amici palermitani. Sembra che non c’entri nulla, eppure… Si tratta degli Appunti del Laboratorio Zeta sulle prossime amministrative, dal titolo “Ai bordi della palude”. Ve ne propongo qualche passaggio.
“Sparare a zero contro tutto il ceto politico del centro-sinistra palermitano sarebbe sin troppo facile, a tratti anche noioso e sicuramente poco utile, almeno per il momento. Certo è che esistono responsabilità tanto diffuse quanto precise se dopo dieci anni di Cammarata ci si trova ad un mese dalla elezioni in una situazione frammentata, confusa e di debolezza. Questioni che hanno a che fare con vanità personali e ambiguità strategiche, e con la crisi generale della politica intesa come pratica collettiva di partecipazione.
Eppure doveva essere abbastanza semplice costruire un’alternativa credibile dopo anni in cui – è bene ricordarlo – sono stati regalati milioni di euro ai responsabili delle municipalizzate che hanno ridotto Palermo una discarica a cielo aperto, in cui interi nuclei familiari sono stati mandati a vivere nei container, in cui tristi rappresentazioni postcoloniali fatte di mandolini e carretti siciliani sono state spacciate per politiche culturali, per non parlare di inquinamento, viabilità, scomparsa dei sevizi sociali e skipper personalizzati. […]
La categoria del Bene Comune, al di là della sloganistica democratica dell’ultima ora, rappresenta per noi un punto di partenza importante per costruire un piano della partecipazione collettiva fatto del coinvolgimento diretto dei cittadini alla costruzione di nuove istituzioni a tutela del comune. Su questo terreno si gioca ad esempio la battaglia per smantellare gli assetti di potere che governano le municipalizzate e pensare nuove forme partecipate di gestione delle risorse pubbliche. Come anche l’opposizione tra un’idea di città chiusa e segmentata, in cui le linee di sviluppo sono guidate degli interessi proprietari dei piani di confindustria, e un percorso di partecipazione diretta come quello che sta alla base, ad esempio, del movimento I cantieri che vogliamo all’interno dei Cantieri della Zisa. Pensare la città come bene comune vuol dire anche guardarla nella sua complessità, scardinare le retoriche di centro e periferia e pensarla a partire dai flussi locali e globali di cui partecipa.
Vuol dire, infine, guardare in faccia le condizioni di disastrosa diffusione della povertà e di assenza di ogni forma anche minima di garanzie sociali che coinvolge larghissima parte della città. Lavoratori in nero, migranti di prima e seconda generazione, lavoratori informali, disoccupati, precari non sono una parte marginale di Palermo, ma ne rappresentano, tutti insieme, la condizione generale. Una molteplicità che vive il territorio senza avere accesso ai diritti anche minimi di cittadinanza e che con la crisi globale vedrà la propria condizione peggiorare ulteriormente”.
Sospetto, equilibri militari, politica gestita come scontro vacuo di tifoserie, negazione della complessità. Credo che questi siano i nodi più difficili da affrontare davvero, quando si parla di riforme sociali, di bene comune, più in generale di prospettiva per il futuro. E qui si salda un’altra riflessione, che pure apparentemente c’entra poco. Su Genitori Crescono (una delle mie letture quotidiane!) impazza il dibattito sul downshifting (leggete qui e qui, con relativi importanti commenti). Non entro nella pienezza del tema, che ha tante sfaccettature. Ma mi colpisce il titolo di uno dei libri di riferimento dei downshifter di oggi: “Scappo dalla città, manuale pratico di downshifting, decrescita, autoproduzione”. Pausa di riflessione. Io condivido molti splendidi concetti che mi argomentano le mie amiche che già fanno, o sono tentate, da questa esperienza: sobrietà, riciclo, attenzione all’ambiente, uso più consapevole del tempo, ricostituzione di legami. Ma io no, dalla città non scappo.
Il perché credo che sia meravigliosamente espresso dalla lettera di Michelucci, con cui ho iniziato questo post. In questa straordinaria potenzialità della città come catalizzatore del cambiamento continuo io, nonostante tutto, a crederci. Nonostante tutti gli innegabili contro. Sono una fan della rivoluzione urbana, quella che migliaia di anni fa ha dato un corso unico – qui e là nel mondo – alla storia della civiltà umana. Perché, come rilevato bene dalla mostra Homo Sapiens che non mi stancherò di raccomandare, noi siamo frutto di migrazioni e incontri, altrimenti non saremmo uomini. E le città sono da sempre i nodi della rete di incontri, di relazioni, di traffici di cose, persone e idee. Un punto di raccolta di diversità e di sfide che, idealmente, dovrebbe proiettarci con creatività sempre oltre il nostro orizzonte, verso modelli nuovi e rivoluzionati. Decrescere sì, quindi, ma per quanto mi riguarda io decrescerei volentieri in città. Se potessi esprimere il mio ideale in uno slogan, direi “vivere semplice e pensare complesso”. Del pensiero semplice ho profondo timore. Non è per snobismo, non fraintendetemi. Ma quel che è semplice da comunicare, spesso – troppo spesso – fa violenza, se non alle persone, almeno alla verità.