Ieri, per superare una serata difficile (oddio, quante difficoltà in questo periodo: mi faccio fatica da sola), con Nizam abbiamo scelto di comune accordo di vederci qualcosa in televisione. Scartate commediole americane che non sono proprio nelle corde del curdo, abbiamo scelto la fiction su Paolo Borsellino di Rai 1. Ci è subito tornato in mente la vigilia della nostra prima vacanza, a Palermo, in cui avevamo visto una replica di quella del 2004 (e Nizam aveva commentato: ma proprio qui mi devi portare?). Prescindendo dalle considerazioni più artistiche, che non ci sono proprie, confermo che un ripassino di storia contemporanea in prima serata è sempre ben accetto.
“Ma secondo te”, ha commentato Nizam alla fine, “ce ne sono ancora di giudici così in Italia?”. Ecco, mi sono sentita in dovere di rispondere di sì. Ho detto che certamente ci sono ancora alcune persone così, in Italia, non necessariamente solo magistrati. Ci sono insegnanti, preti, poliziotti, giornalisti, genitori, nonni che intendono ancora così il loro lavoro: come impegno civile, se necessario anche estremo e coerente fino in fondo. Spesso ne sentiamo parlare troppo tardi. Magari dopo che sono stati uccisi. Quello che però ho aggiunto e che mi ha colpito come un pugno allo stomaco, ieri, è che in 20 anni qualcosa comunque si è perso per strada. La reazione di sincera indignazione e partecipazione di tutti i cittadini, da cui pareva potesse nascere un grande cambiamento, si è infiacchita, affievolita, fino a perdersi nei mille rivoli del solito nulla.
Oggi, ricordando quelle stragi enormi, spropositate, è doveroso chiedersi dove eravamo rimasti. E fare spazio, tra le distrazioni e gli affanni, alle nostre ribellioni civili.
Stamattina, in autobus, leggevo un libro che mi è stato passato da mia madre (come accade per molte mie letture importanti, specialmente in questo momento): Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Mi si è fermato l’occhio su una frase: “Una settimana dopo il massacro di Sabra e Shatila, la rivista Newsweek decise che l’evento più importante dei sette giorni precedenti era stato la morte della principessa Grace”. L’ho riletta più volte e ho pensato che questo è ciò che accade oggi, sempre. Invece di pensare, di costruire pensiero collettivo (che dia dignità alla complessità e alle divergenze, che apprenda dall’esperienza, che collettivamente cerchi di cogliere non la verità ma il quadro attendibile che nessun singolo è in grado di registrare) finiamo per spostare l’attenzione di continuo. Nulla si deposita, nulla si costruisce. E’ per questo che, guardandoci indietro, ci rendiamo conto che i 20 anni trascorsi oggi dalla strage di Capaci non hanno aggiunto nulla al nostro percorso di italiani.
no, secondo me non è così. Si sta costruendo una coscienza civile diversa, forse più disillusa, forse più consapevole…è che non sappiamo dove ci porterà. Secondo me ci porterà fuori dallo stato, in nuove comunità autogestite, però, probabilemte, sto solo delirando 😉