Un casale in mezzo alla città. Magico come un castello di principesse. Meryem scorrazza su e giù, con una sua più o meno coetanea. E’ la seconda volta in due giorni che la guardo, anche da una certa distanza. La vedo muoversi più sicura, più decisa (e non solo per il piede, che inizia a dimenticare il gesso).
Una festa colorata, di quartiere e internazionale allo stesso tempo. Un luogo che senza tetto era forse più eroico, ma ora che il tetto ce l’ha è un patrimonio comune (che fa di tutto per restare tale). E allora si saluta senza rimpianto l’età degli eroismi.
Meryem canta “A come armatura” con il papà della nuova amichetta. Io incontro amici, vecchi e nuovi. Ma riesco anche a passeggiare in silenzio e a scoprire dei fiori arancioni, la luce del sole sui gradini di marmo, il fumo della grigliata che sale sopra il glicine.
Nell’ufficio chiuso al pubblico, ma che mia figlia considera aperto “perché noi conosciamo chi lavora qui”, disegniamo insieme un cielo stellato. “Mamma, chi sono i rifugiati?”. Chissà se lo ha sentito da me, oggi o in un’altra occasione. O forse da qualcun altro. Le rispondo, tranquillamente. Annuisce. Oggi è primavera.
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La città dell’utopia
Festival Internazionale della Zuppa