“Mi trascinano per questo viaggio inevitabile, così, illacrimata, senza amici, senza sposo. Mi tolgono questa luce bella, il sole sacro. Quale pianto umano, quale voce amica gemerà sulla mia sorte?”
L’Antigone di Sofocle è un testo che ho studiato, amato e rimuginato a lungo all’ultimo anno del liceo. Ma che poi si è riaffacciato, qua e là, in momenti diversissimi della mia vita. Questo è uno di quei momenti. Giorni fa, al lavoro, abbiamo ricevuto una mail. Un ragazzo rifugiato, uno di quelli che probabilmente abbiamo incrociato in uno o più dei nostri servizi, è morto. Lui era solo qui. Rimandare il corpo in patria, a sua madre, sarebbe un gesto minimo di civiltà. Che però costa, molto. La Croce Rossa Internazionale coprirebbe parte dei costi (circa la metà), ma il resto? Gli operatori che l’hanno più seguito e conosciuto chiedono a tutti di contribuire, perché si raccolga la cifra in questione. Io, da quando ho letto questo appello, mi sento combattuta. Da un lato la mente pratica dice: ci sono tanti, troppi vivi, che non hanno neanche l’indispensabile. Spendere qualche migliaio di euro per un morto suona come un tragico lusso. Dall’altro però non posso non vedere l’altro lato della medaglia: una madre che non può seppellire suo figlio perché non può permetterselo. Una forma ulteriore di abbandono, di oblio. La lontananza che si perpetua nel negare, di quel figlio perso, persino una sepoltura. E’ qui che ho pensato a Antigone. Una che per una sepoltura si è fatta seppellire viva. Ne valeva la pena? Beh, risponderebbe qualcuno, magari non è proprio per il cadavere, ma per una questione di principio. La legge, la coscienza… Io lo seppellirò. E poi sarà bello morire. Cara a lui riposerò con lui a me caro. E avrò compiuto un delitto santo. Il tutto per dire che non lo so davvero come la penso, anche su questo. E’ difficile essere pratici in queste cose. Penso a cosa proverei se quella madre fossi io. Ma tanto non lo saprò mai, questo. Un altro esercizio ozioso.
Però Antigone è ricomparsa nella mia vita e con essa il tema che più mi folgorava, al liceo, quando leggevo il testo greco: la solitudine. La solitudine, da adolescente, mi affascinava e mi terrorizzava come un crepaccio cattura lo sguardo di chi soffre di vertigini. Oggi, a tanti anni di distanza, la solitudine ha acquistato tante diverse sfumature e tutte molto distanti dalle mie piagnucolose serate di liceale. Ancora una volta il pensiero corre ad alcuni rifugiati. Quasi tutti loro sono soli, per buona parte della loro esperienza qui. Ricordo un quadernino di un ragazzo curdo di 19 anni che frequentava la scuola di italiano, tanti anni fa: una pagina intera era riempita con la parola yanliziyim, “sono solo”. Però la solitudine si accentua in alcune situazioni estreme. Un ragazzo afgano ha avuto un ictus, è stato in coma, ora si è risvegliato e è in ospedale. Nessuno lo va a trovare, non ha nessuno. Una professoressa del corso serale che frequenta si fa in quattro per andare di tanto in tanto, per informarsi dai medici anche se non potrebbe. Diciotto anni, solo al mondo, qui. Lo stesso è successo a un ragazzo egiziano, l’estate scorsa. Le mie colleghe, che avevano fatto con lui due o tre colloqui di orientamento, erano tra le persone che avevano con lui legami più stretti, qui a Roma. Lo ricordano sperduto in un letto di corsia, confuso e disorientato, completamente perso. Il recupero sarebbe stato difficilissimo. Nessuno gli parlava. Un altro ragazzo, afgano, quella stessa estate non ce l’ha fatta. E’ affogato, incomprensibilmente, su una spiaggia del litorale romano. Roba che se uno pensa a quello a cui era sopravvissuto, più che ad Antigone pensa a Samarcanda.
Del resto la stessa solitudine colpisce, a volte, chi più si spende a fianco di queste persone dimenticate. Penso a uno stimatissimo collega che, ricoverato in ospedale per una malattia grave, è stato di fatto assistito solo dalle colleghe di ufficio. Preso dalla causa, noto a tutti, coordinatore di reti nazionali, non ha una famiglia e, alla fin fine, condivide nei fatti (pur nella diversità delle situazioni) la condizione di coloro per cui tanto si spende.
A conclusione di questo quadro piuttosto fosco, volevo invece parlarvi di un libro che mi ha molto colpita: questo. Un libro che vorrei che mia figlia leggesse, appena sarà in età per farlo (diciamo alle medie, o forse anche agli ultimi anni di elementari). Si parla di lotta alla mafia, ma anche di molto altro. Un passo in particolare mi pare molto efficace. Bregantini usa l’immagine del lupo di Gubbio (la sapete la storia, vero? altrimenti ascoltatevi la canzone di Branduardi, come consiglia lo stesso vescovo) per raccontare ai ragazzi delle scuole la mafia: “Certo, sono necessari degli adattamenti: i mafiosi non uccidono per fame. Però è vero che, oltre ai boss che si spartiscono le grandi ricchezze degli affari illeciti, ci sono i tanti ‘manovali’ della ‘ndrangheta che vivono di briciole […]. Dal vivere ai margini a mettersi consapevolmente ai margini il passo è breve. Per questo l’antimafia non è fatta di eroi solitari. Occorre una comunità – come a Gubbio – per vigilare sul male e prevenirne gli attacchi, ma anche per riconoscere le situazioni in cui il male affonda le proprie radici e per trovare il modo di risanare il terreno. Non basta un prete, un vescovo o un Saviano […] Per combattere la mafia non basta denunciare le negatività – come fanno Saviano e altri autori – che conoscono i fatti in maniera approfondita e fanno benissimo a descriverli con la necessaria crudezza. La loro chiarezza e lucidità ci aiuta a capire. Ma non basta! A noi – Chiesa e società civile, tutti e ciascuno – tocca il compito di andare oltre, di raccontare e valorizzare il positivo che già c’è, di seminare il bene e il bello, altrimenti si rischia di rimanere schiacciati dall’orrore”. Il contrario della solitudine sterile e potenzialmente pericolosa è, sorprendentemente, la bellezza. Sottrarre all’incuria, valorizzare il bello, insegnare ad apprezzarlo è uno delle vie più efficacia per consolidare la speranza e, con essa, il tessuto sociale. Nelle prime pagine Bregantini parla della cattedrale normanna di S.Maria Assunta Gerace, in cui l’architettura è talmente raffinata che i raggi di luce penetrano nel tempio seguendo percorsi precisi a seconda delle ore del giorno e del calendario liturgico, in modo che il 15 agosto, giorno dell’Assunzione, il sole colpisce esattamente il centro del presbiterio. Un po’ come accadeva in certi templi egiziani, che hanno sempre colpito la mia immaginazione pur non avendoli mai visti. Io a Gerace sono stata più volte, ma questa cosa non la sapevo. Questo credo che sia il punto dell’apprezzamento della bellezza di cui parla Bregantini: non si tratta solo di goderne individualmente, in solitaria contemplazione, ma di condividerla e restituirla al territorio, ridando dignità a tutti coloro che ci vivono. Troppo astratto? Forse. Ma si parla anche di cooperative, di logiche di sviluppo, di idee concrete e tangibili. E’ un libro pieno di affetto e stima per la terra di mia madre, quella Calabria dove alle volte il concetto di destino soffoca ogni possibile cambiamento. E mi commuovono le sottolineature, a matita, di una donna che quella terra l’ha abbandonata a 19 anni, pur senza cessare mai di amarla profondamente. In quei segni sobri la vedo annuire, sospirare, ricordare e anche sperare in quei giovani in cui ha sempre riposto tutta la sua più sincera fiducia.
è l’una e mezza della notte. leggo questo bellissimo post e penso ad altri generi di solitudine, alla mia terra, che non riesce a farsi comunità intorno alla sua bellezza, e dunque ne fa scempio.
La stessa cosa che capita a te con Antigone capita a me con Edipo Re. mi si ripresenta periodicamente, in momenti diversi della vita. La colpa ineluttabile, l’indagine scientifica, l’irrazionalità del destino, la sconfitta dell’intelletto, lo scacco della vista, il trionfo della visione. E tutta un’altra carrettata di robaccia psicologica che non sto qui a dire …
Leggo questo post e mi ricordo perché siamo amici.
Solo – per favore – comprati un’edizione di Sofocle con una traduzione plausibile, please!
Obiezione accolta. Ce l’ho una traduzione plausibile, ma la pigrizia di fare taglia e incolla da internet mi aveva fregato.
bel post, pieno di spunti di riflessione…hai ragione quando dici che quelle migliaia di euro potrebbero servire a tante altre persone vive e invece vengono destinate ad un morto..ma io credo, senza ombra di dubbio , che sia uno strazio già cosi grande la morte di un figlio che forse si possa trovare 1 pò di pace a piangerne il corpo “vero”, presente…
E poi quando si parla di donare, che sia un oggetto o dei soldi, credo che non importa farsi tante domande sul come e dove andranno impiegati..se pensi che sia giusto così fallo, avrai contribuito a dare un pò di sollievo a quella madre!
Leggo ora dopo un rientro dalla fiera del libro, ubriaca di libri e di persone, di sguardi, di tentativi, di saluti, di riflessioni silenziose quasi a me stessa.
Penso a Medea, mio testo d’esame al liceo, l’unica della classe a portare greco.
Già allora mi aveva bucato l’anima la solitudine di quella madre senza che ne fossi pienamente consapevole, ora so e sento, nonostante le persone, i libri, le letture…
Penso ancora ….senza filo… post intenso!
Antigone, Edipo Re, Medea… Mi fate venire voglia di indire un contest. “Quale tragedia greca vi rappresenta e perché?”. Quasi quasi…