Non so voi, ma a me la parola assedio rimanda a immagini e storie di altri tempi. I bassorilievi assiri, i colori brillanti dei manoscritti medievali. Alessandro Magno e l’assedio di Tiro e l’assedio di Mozia raccontato da Diodoro Siculo. E Troia, dove la lasciamo? Insomma, alla fine – con qualche variante – eroi, principesse, catapulte, ponti levatoi e olio bollente.
Poi leggo questo. Un messaggio di una persona che oggi vive assediata. Non in senso metaforico. In senso fisico, reale e quotidiano. Che non può muoversi in un raggio superiore a un chilometro. Che sta consumando le ultime scorte di cibo. Che va incontro all’inverno con porte e finestre rotte, consapevole che patirà il freddo, la fame, la mancanza d’acqua e di medicinali essenziali. E noi lo sappiamo. Riceviamo i suoi messaggi. Sappiamo il suo nome, sappiamo dove vive, sappiamo anche – in una certa misura – cosa pensa.
A me ha fatto effetto. Non conosco personalmente padre Frans, ma gli sono grata. “In genere non permettiamo a noi stessi di lasciarci sopraffare dalla tristezza e dalla disperazione. Eppure sentiamo che questi sentimenti sono sempre in agguato”. Da quando l’ho letta, questa frase mi torna in mente in modo ricorrente.
Una volta di più, mi rendo conto che ogni volta che si guarda con un minimo di attenzione, la conclusione è sempre la stessa: noi non ci rendiamo conto di cosa sia la guerra. Eppure, a leggere dai giornali, sembrerebbe che siamo noi (o gente come noi) a decidere quali sono le priorità, le linee da non oltrepassare, le strategie migliori. Siamo come i tifosi italiani che guardano le partite e che si sentono tutti, dal primo all’ultimo, allenatori. Però abbiamo certamente più potere dei diretti interessati. Ecco, immaginate che la campagna acquisti del Milan sia determinata dalle chiacchiere di nonno Peppino al bar di Sciacca. A volte ho il tremendo sospetto che la politica internazionale vada un po’ così.