Ieri mio nipote doveva realizzare, per la scuola, delle interviste. Io e Nizam abbiamo avuto l’onore di essere inclusi nel campione. La sera abbiamo confrontato le nostre risposte (io mi ero già fatta riferire le sue dalla mamma dell’intervistatore, viva la fiducia… ma corrispondevano a quello che mi ha riferito lui).
La prima domanda era: “Vorresti vivere in una città diversa da Roma?”
Entrambi abbiamo risposto di sì. Io ho menzionato Berlino e Istanbul, lui Amburgo o qualche città dell’Italia del nord, tipo Aosta o Bolzano. Insomma, sulla Germania settentrionale si potrebbe trovare un compromesso.
Sui motivi per cui vivere a Roma tutto sommato ci piace risultavamo abbastanza concordi: la bellezza e straordinarietà oggettiva del luogo, il clima (non dimentichiamo il clima), per me – più che per lui – i ricordi, gli affetti, i legami familiari.
Molto di più avevamo da dire sui motivi per cui vivere a Roma non ci piace. La lista potrebbe essere lunga, ciascuno si è dovuto limitare a sole tre risposte. Trovo però che Nizam sia stato sintetico e efficace nel dire, senza esitazione alcuna: “Perché qui non funziona niente! Un’ora di attesa alla posta, sei ore di attesa al Pronto Soccorso, due ore di attesa allo sportello dell’Anagrafe…”. Magari sarà un po’ esagerato, ma certo il livello di inefficienza medio è tale che tutte le volte che ci si trova davanti a un servizio che funziona si resta basiti. Da quando ha il negozio, Nizam tocca con mano quotidianamente i disservizi che lasciano sgomenti i turisti, specialmente stranieri. Metro chiusa per sciopero praticamente un venerdì sì e un venerdì no, autobus che passano a singhiozzo, senza alcuna possibilità di prevedere l’orario di passaggio, per non parlare di tariffe di hotel truffaldine, tassisti furbi e altri disguidi.
Giusto ieri al kebab è venuta una splendida ragazza palestinese che studia medicina qui a Roma (il dettaglio estetico non ha alcun rilievo per la narrazione, ma ne aveva per il narratore e io, fedele alla verità, riferisco) con suo padre, arrivato a trovarla da Israele. Il distinto signore, che parlava scioltamente cinque lingue (francese, tedesco, inglese oltre a arabo e ebraico) e, un po’ più faticosamente, anche l’italiano, era letteralmente sconvolto e inorridito. In uno degli autobus affollati come carri bestiame che aveva preso dopo un’attesa di un’ora e più un borseggiatore gli aveva rubato il portafogli. A parte le considerazioni sulla qualità del trasporto pubblico, dunque, il fortunato palestinese ha potuto anche fare esperienza di presentare una denuncia al commissariato. Dopo un’altra eterna attesa, ha scoperto con un certo sconcerto che nessuno parlava una parola di una lingua diversa dall’italiano. Lui dunque se l’è cavata, ma si chiedeva (non senza una certa legittimità): “Ma gli altri, come fanno?”.
Quando Nizam mi dice che giurerebbe sul fatto che la maggior parte dei turisti che vede non torneranno a Roma neanche se profumatamente pagati, io qualche volta ribatto piccata che esagera. Ma allo stesso tempo realizzo, con dolore, che come molte cose, nel nostro Paese, è solo il caso che determina se l’esperienza di uno straniero (ma anche di un italiano) da noi sarà un sogno o un incubo. Chi mi conosce sa che io di Roma sono follemente innamorata. Che sono convinta che sia davvero un luogo straordinario, non solo dal punto di vista storico-artistico (e già solo per quello, quanto ci sarebbe da valorizzare…). Mi ferisce quindi dovere ammettere queste mancanze, così come non è piacevole riconoscere che la qualità della nostra vita è abbassata da tanti fattori che potrebbero essere corretti da organizzazione, volontà e senso civico di amministratori e cittadini.
Tra i punti a favore rispetto a vivere a Roma, Nizam ha elencato, con una certa mia sorpresa, “i romani”. Gli piacciono. “Magari sono un po’ bugiardi, un po’ finti, ma sono simpatici, caldi (nel senso, presumo, di calorosi)”. Io ieri sera non ero dell’umore e ho sbottato che a me no, i romani non piacciono. Non mi piace il menefreghismo, la tendenza a farsi scivolare tutto addosso (il “m’arimbarza”, per intenderci), la sciatteria, il pressappochismo. Ma mentivo. Adoro dei romani, di molti romani, la salace saggezza, l’ironia fulminante, un certo modo di dissacrante di intendere la vita che gli storici attribuiscono alla quotidiana consuetudine con il potere (vaticano, molto prima che nazionale).
Per concludere, stamattina ho chiesto a Meryem se le piace vivere a Roma. “No”, ribatte lei decisa. No? E dove vorresti vivere? “A Pavia” (per la precisione, a casa di Chiara, anzi “di Amelia”). E cosa non ti piace di Roma? Anche in questo caso, nessuna esitazione: “Casa nostra”. Sono soddisfazioni.
Dì a Chiara di prepararsi, perché ci passeremo anche noi prima o poi.