Padre Nawras

Venerdì, a Milano, ho sentito citare queste frasi intense del Cardinal Martini, che tempo fa avevo a mia volta ricordato: “Intercedere vuol dire mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo. Si tratta di mettersi in mezzo.  Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Cosi facendo, saremmo ancora nel campo della politica e delle sue poche risorse. Chi si comporta in questo modo rimane estraneo al conflitto, se ne può andare in qualunque momento, magari lamentando di non essere stato ascoltato. Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso. Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione”. Non sapevo, però, in che occasione il Cardinale aveva pronunciato, per la prima volta, questo discorso. Era il 29 gennaio del 1991. La guerra in Iraq era appena cominciata. 

Con la cristallina sincerità che gli era propria, Martini non si accontentava di mormorare parole di circostanza. Aveva chiamato le cose con il loro nome, aveva menzionato i dubbi, uno a uno: “Io lo dico e ne do testimonianza: il mio cuore è turbato, la mia coscienza è lacerata, i miei pensieri si smarriscono. Tutti noi, senza fare eccezione tra credenti e non credenti possiamo ripetere: i nostri cuori sono turbati, le nostre coscienze: sono lacerate, i nostri pensieri si smarriscono, le nostre opinioni tendono a dividersi. Smarrimento e angoscia che non ci coinvolgono solo sul terreno del lutto per i morti, delle lacrime per tutti i feriti, del lamento doloroso per i profughi, per i senza tetto, per coloro che vivono nell’angoscia dei bombardamenti giorno e notte. Lo smarrimento e la divisione delle opinioni avvengono pure sul terreno delle riflessioni etico-politiche, che in questi giorni si succedono facendo balenare i più diversi giudizi. Vorrei dire molto di più: lo smarrimento e l’angoscia toccano persino l’ambito della fede e della preghiera, che è quello che ci riunisce questa sera, perché siamo qui per vegliare, digiunare, intercedere, facendo nostre le intercessioni e le grida di tutti gli uomini e le donne, di tutti i bambini, di tutti i vecchi in qualche modo coinvolti nel conflitto del Golfo, di qualunque parte essi siano” (trovate il testo completo di quella veglia che molti milanesi ricordano vividamente qui).

Perché se la riuscissimo a pensare davvero, la guerra, come potremmo parlarne freddamente, razionalmente, in termini statistici e strategici? Forse il punto è proprio questo. Noi la guerra non la pensiamo.

Mentre sentivo parlare di Martini in una bella e sobria sala milanese, pensavo al mio incontro del giorno prima. Padre Nawras è il direttore del JRS Medio Oriente. Siriano. Salvo piccoli viaggi all’estero, vive in Siria, ogni giorno. Ancora una volta sono rimasta spiazzata. Accoglie chiunque con un sorriso franco, aperto. Non si sente in dovere di mantenere un’aria grave, neanche quando parla di situazioni disperate. Ha la credibilità inconfutabile di chi ci sta, lì in mezzo. Di chi ogni giorno è in mezzo alla guerra, senza scampo, allargando le braccia (e dandosi incidentalmente molto da fare). “Il nostro business prospera”, scherza persino, quando viene sottolineata l’incessante crescita di servizi per rifugiati e sfollati interni nel patchwork di un territorio senza unità e senza sicurezza. “Tra un paio di settimane apriremo una piccola mensa nei dintorni di Damasco. E’ un progetto comune tra noi, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, la parrocchia ortodossa e i comitati di quartiere, musulmani”. Piccola, per la cronaca, significa che servirà 1500 pasti al giorno. Ad Aleppo ne distribuiscono 17.000.

“Che prospettive vede per la Siria?”. “Razionalmente, non si vede nessuna prospettiva. Ma noi siamo cristiani e non perdiamo la fede, no?”. Quello che più mi colpisce, di quest’uomo determinato e coinvolgente, è la sua serenità. Non vedo in lui nessuna traccia del disperato rancore che tanto spesso finisce per attecchire in chi vede ingiustizie e tragedie indicibili. Descrive i check-in, dove in cinque secondi il militare di turno ha il potere di decidere se vivrai o morirai. Una, cento, mille volte. Aggiunge che a volte agli anziani non vengono controllati i documenti: “Un giorno, il mese scorso, un ragazzino di vent’anni mi ha detto che non c’era bisogno che mostrassi il passaporto. ‘Va bene, va bene, zio’, mi ha detto. Mi sono davvero depresso”.

La sua posizione è chiara. Il problema in Siria non è chi e come armare. Il problema è disarmare. E anche in fretta. Fermare la corsa folle a chi distrugge di più, foraggiato da chi non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Quasi mi vergognavo, dopo due riunioni in cui si era parlato di questioni gravi e urgenti, di consegnare di disegni per la Siria che mi erano arrivati da Salò. Ma lui si è illuminato. “Queste sono cose molto importanti. Meravigliose. Me ne sono arrivati anche dalla Germania. Sono segni di speranza molto importanti”. Tornando in autobus ho pensato che i veri santi sono questi. Quelli che non perdono la bussola in mezzo all’inferno e hanno uno sguardo e un’attenzione speciale per tutti. Che non negano di essere turbati (“La cosa più difficile, per me”, ha detto Nawras a un certo punto della conversazione “è continuare a vedere Dio in tutto questo”), ma non si crogiolano nel turbamento. Che non consentono mai alla divisione di prevalere (“noi non lavoriamo per i cristiani di Siria, ma per tutti i siriani, che soffrono ugualmente”). E io sono fortunata di averne incrociato, almeno uno, nella mia vita.

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