Disobbedire

Ieri ero, con caparbia testardaggine, alla riunione del comitato dei genitori della mia scuola, per motivazioni analoghe a quelle di cui parlavo a proposito del voto europeo: sostanzialmente, una fede cieca nel fatto che un giorno anche questa assemblea al momento incomprensibile tornerà ad avere un senso. Si è venuto a parlare degli Invalsi e, di conseguenza, del tema più ampio del rispetto delle leggi quando sono, più o meno palesemente, ingiuste.

Il primo pensiero corre, inevitabilmente, a Antigone. Strano come il primo serio pensiero sulla disobbedienza civile mi sia stato insegnato da una professoressa severissima e vecchio stile, che non aveva nulla di sessantottino. Una professoressa che un giorno, traducendo un verso dell’Iliade con la sua vocina tremolante, aveva avuto un’uscita indimenticabile: “Qui in realtà la traduzione letterale sarebbe un po’… un po’… un po’ forte, ecco. Il testo dice infatti: …e tu, ficcatelo…” L’intera classe restò con il fiato sospeso, completando mentalmente la frase interrotta con ogni sorta di colorite immagini. Ma poi la prof riprese: “…ficcatelo… bene in testa!“. Risata omerica (e dunque pertinentissima al testo in questione). Dicevo però che questa donnina temutissima da tutti, facendoci comprendere fino in fondo la pienezza di un classico come la tragedia di Sofocle, ci ha creato in testa quel fondamento teorico che distingue una azione semplicemente illegale da un gesto etico.

Il mio secondo pensiero è andato invece al nocciolo del mio problema attuale: come insegnare a un bambino la disobbedienza? Mi obietterete che non ce n’è alcun bisogno, dato che gli viene assolutamente spontanea. Ecco, appunto.Disobbedienza non significa fregarsene delle regole: al contrario, io credo che abbia valore se chi la pratica crede in un sistema regolato da leggi e lotta per migliorarlo. L’esperienza di un bambino è forse troppo breve per riuscire a spiegare in modo efficace questa differenza. Soprattutto la differenza tra violare una regola per il proprio personale tornaconto e farlo invece in nome di un bene maggiore, universale. O forse sono io che sono troppo limitata?

Il mio terzo pensiero derivava direttamente dal secondo e non era troppo allegro: non credo che sarei davvero capace di violare la legge per un bene più alto. L’ho desiderato molte volte, ma in fin dei conti non ce l’ho mai fatta. Mi piace pensare che forse, in circostanze estreme… Ma poi mi ritrovo sempre, elveticamente ligia. Pago persino il canone RAI, per dire… Evidentemente i miei genitori e i miei educatori sono stati più efficaci nell’insegnarmi il rispetto della norma che nell’incoraggiarne i alcun modo la trasgressione. Ma anche il carattere conta, immagino.

Ma proprio mentre mi crogiolavo in questo semicupo pensiero, stamattina mi si è presentata la straordinaria opportunità di rendermi complice di un gesto di disobbedienza che condivido profondamente. Un gesto dovuto, che denuncia tutta l’ipocrisia delle leggi e delle politiche sull’immigrazione contro cui mi sentite tuonare spesso e volentieri su questo blog. La realtà è la strage di persone innocenti a cui assistiamo inebetiti e persino commossi. La realtà è la cappa di impermeabile indifferenza che gettiamo sui sopravvissuti, che evidentemente non ci commuovono altrettanto. Io stessa, alla Stazione Centrale di Milano, non ho faticato a individuare i siriani in transito, fuggiti dalla guerra e in attesa di altre rocambolesche e disperate fughe qui, a casa nostra.

Per questo, la compassione non è il sentimento giusto. Perché noi siamo soggetti politici, e il non farci carico delle questioni europee perché riguardano “gli altri” per i quali ci commuoviamo è ipocrita, e immorale come le azioni per le quali ci indigniamo.

Per questo, un gruppo di folli ha deciso di cambiare registro. Non più la lacrima come veicolo politico, deresponsabilizzante, ma la festa come strumento di battaglia. Disobbedire con sorrisi, abiti di gala, e situazioni rocambolesche. Perché nulla è più potente per esorcizzare la morte e la sofferenza, di un legame festoso.
Non stare da questa parte, e compatire, ma stare dalla parte giusta. Con la sposa.
Io sto con la sposa nasce così. 

(Valeria Verdolini, Io sto con la sposa)

Un’avventura iniziata il 14 novembre 2013 a Milano da 23 ragazzi e ragazze, convinti che in questo caso disobbedire si può e si deve. Loro, trafficanti improvvisati per coscienza e per arte, hanno rischiato e rischiano molto. Io non rischio affatto, ma mi piace pensare di essere parte di essere parte di quella “comunità di persone, in Europa e nel Mediterraneo, che come noi sognano che un giorno questo mare smetta di ingoiare le vite dei suoi viaggiatori e torni ad essere un mare di pace, un mare dove tutti siano liberi di viaggiare, e dove nessuno divida più gli uomini e le donne in legali e illegali”. Immaginate di offrire un caffè o una pizza a questi ragazzi, di ospitarli per una notte. Rendetevi complici, nel vostro piccolo. Magari così questa storia arriverà al Festival di Venezia e, da lì, anche ai posti dove questa vergogna può essere cambiata. Potete fare un’offerta, anche piccolissima, qui.

2 pensieri riguardo “Disobbedire”

  1. Da maestro, e da maestro tante volte disubbidiente (ammesso che la disubbidienza si rilevi con i richiami e i provvedimenti disciplinari che mi becco strada facendo), vorrei dirti una cosa. Non credo che la disubbidienza si debba o si possa insegnare ai bambini. Tutto il contrario. Un bambino è un cucciolo che va preso per mano e persuaso sulla necessità delle regole, sulla imprescindibilità delle regole in una vita sociale, sulla loro imparzialità, esattezza e lungimiranza. A scuola si è cittadini in costruzione. Non puoi stare tutti i giorni, 8 ore al giorno, in un gruppo e pensare di cavartela imparando solo la scomposizione in fattori o l’analisi logica.
    Per questo non ho mai insegnato a disubbidire. E non sarei un maestro se lo facessi. Un maestro deve fornire conoscenza e strumenti, come un falegname che insegni a lavorare il legno. Cosa intaglieranno i bambini quando saranno finalmente in grado di farlo, se costruiranno sedie, crocifissi, cavalli a dondolo o librerie non è una questione che può e deve decidere lui.

    Come uomo invece ti dico che ho sempre avuto ammirazione per la disubbidienza degli adulti, quando questa è sacrificio di un tornaconto personale davanti alla forza di un ideale. Penso ai primi obiettori di coscienza che dissero no alla legge sul servizio militare e per questo fecero fino a 10 mesi di galera, a quegli 11 docenti (in tutt’Italia solo 11!) che si opposero alle leggi razziali, a Borsellino che andò dritto, sapendo bene dove, e lasciò a casa moglie e figli. E mi fermo. Perché per fortuna gli esempi sarebbero tanti. Questa cosa qui, saper rinunciare a un proprio piccolo interesse quando si contrappone a un principio più grande e generale, credo che si possa insegnare. E io ci provo.

    1. Caro Flavio, sono assolutamente d’accordo. E neppure pensavo, a scanso di equivoci, che tu facessi qualcosa di diverso. Insegnare la disobbedienza è forse un termine improprio. Mi riferivo a quell’insegnamento che si fa, anche non del tutto volontariamente, con l’esempio e rispondendo alle domande che sorgono inevitabilmente rispetto ad atteggiamenti di noi adulti. Ad esempio, a quelle spiegazioni che dovrei darle, l’anno prossimo, se mai decidessi di fare “obiezione” all’INVALSI. Ma non solo.

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