Mai come nelle ultime settimane ho avuto la percezione di avere accesso a una quantità di storie importanti, che andrebbero raccontate. La forma in cui mi arrivano, di solito, non è esattamente quella canonica del racconto, dell’articolo di giornale o del documentario. Sono storie che parlano attraverso degli intermediari: solitamente colleghi, qualche volta amici, in molti casi colleghi che sono anche amici.
Queste storie quindi hanno ai miei occhi un valore doppio. Sono importanti di per sé, perché raccontano di sofferenze e di vergogne di cui tutti, in quanto uomini, dovremmo interessarci. Ma sono importanti anche perché rivelano che qui e là, in giro per l’Europa e anche in questo nostro Paese a brandelli, ci sono persone che si indignano, che si sentono chiamate in causa e interpellate dall’ingiustizia e che fanno tutto quello che possono per fare resistenza agli orrori commessi in nome della sicurezza. Oggi leggevo di come i passeggeri di un comune aereo di linea abbiano impedito (momentaneamente, è chiaro) che un rifugiato curdo venisse rimandato in Iran. Il governo svedese probabilmente riuscirà a rimandarcelo, alla fine. Ma se le nostre sono democrazie come ci vantiamo che siano, prima o poi i cittadini riusciranno ad opporsi a questa deriva disumana.
Persino Alfano, di cui tendenzialmente non sono un’ammiratrice, poco fa alla Camera ha detto: “Noi non faremo morire le persone in mare per 500mila voti in più della Lega. Ci faremo carico della sicurezza dei cittadini e dell’accoglienza. Se voi volete la sicurezza e i morti sappiate che noi vogliamo la sicurezza e i vivi”. Credo e spero che questo sia un buon segno.
Un giorno ci faranno il film, e piangeremo. Un bellissimo post scritto mesi fa dalla mia amica Anna mi torna continuamente in mente in questi giorni. Mi immagino i cento bambini in fuga sulla piazza della stazione di Catania di cui mi parla Elvira. Vedo lo sguardo terrorizzato del giovane eritreo (“ma secondo noi non ce li aveva, 18 anni”, dicono Annamaria e Azim) che da Vicenza è scappato, in ciabatte e felpa, senza soldi, senza cellulare, probabilmente perché a lui il mio Paese fa paura quanto e più della Libia. Riferendosi a lui e a altri due ragazzi, anch’essi scappati poche ore dopo dalla città, il sindaco di Vicenza ha scritto una lettera ufficiale dicendo: “E’ oggi fondamentale far capire che l’Italia non è il Paese del Bengodi, dove chi arriva viene ospitato gratuitamente senza lavorare, con vitto, alloggio e quant’altro assicurati”. Oserei dire che il messaggio è arrivato, e anzi probabilmente era già arrivato da un pezzo attraverso l’esperienza di tanti altri rifugiati in questi anni, senza bisogno che il sindaco di prendesse il disturbo di metterlo nero su bianco.