San Valentino


“Che programmi hai per San Valentino?” La domanda mi fa sorridere. Mi riporta ai molti anni in cui ho provato ad averne. Da ragazza non avevo fidanzati. Poi, quando ne ho avuti, erano della categoria che per carità, queste feste commerciali non ci avranno. Con il curdo ci ha provato una volta lui, proprio all’inizio, comprando un improbabile quanto minuscolo completino da Intimissimi, e una volta io, apparecchiando una cena di tre portate che è risultata quasi altrettanto forzata e fuori luogo.

Oggi, quando mi è arrivata questa domanda, là per là mi è venuto da ridere. Per una zitella un po’ attempata, San Valentino non ha nessun senso. Dovrei aver deposto ogni velleità. Probabilmente l’ho fatto.

Eppure. Mi piacerebbe lo stesso pensare in che modo mi farebbe felice la mia anima gemella, se esistesse. Forse mi porterebbe a teatro, la sera prima, e poi a mezzanotte stapperebbe una bottiglia di Ribolla gialla su un terrazzo segreto con una vista pazzesca su Roma, tipo l’osservatorio astronomico sul tetto di S.Ignazio. O si farebbe trovare sotto casa mia la mattina prestissimo e mi porterebbe a fare colazione in un posto speciale, che non conosco ancora (e che mi consenta di essere in ufficio entro le 9, in tempo per la supervisione dell’equipe di Monza).

Ogni tanto, nella giornata, mi manderebbe un messaggio. Divertente, ironico, romantico, dolce. Forse la mattina, a colazione, condividerebbe con me una playlist con le canzoni che mi fanno stare bene, perché lui saprebbe quali sono, incluse quelle più insospettabili. Poi mi verrebbe a prendere a San Lorenzo dopo la lezione, portando uno spuntino pensato per me: un panino con un formaggio speciale, delle microarancine, oppure del pane indiano ripieno caldo.

Rideremmo, tornando a casa, di quanto sia sdolcinato, alla nostra età festeggiare San Valentino. E ugualmente, o forse per questo, gli sarei grata perché ha esaudito un desiderio che magari è fuori tempo massimo, ma che lascia entrare ancora oggi una sorta di spiffero freddo nel mio cuore. Niente di grave, ma non ci vuole molto a chiudere quella fessura. E poi si sta più caldi, più comodi, più tranquilli.

Tratteniamo il respiro


Ancora in piena ondata di contagi, cominciamo a vacillare, persino nell’ansia. Un po’ schiviamo, un po’ ci facciamo tamponi, ma in fondo in fondo questo Co-vid, normalizzato dall’esperienza di tanti amici, sta diventando qualcosa che prima o poi ci toccherà, o almeno inizio a pensarlo, per scaramanzia o per ragionevolezza.

Il tempo però, il nostro tempo, mi pare completamente trasformato. Io ho smesso, ad esempio, di fare programmi. Mi concentro su un orizzonte temporale di 24-48 ore. Un gigantesco cono di “Inshalla” ha avvolto la mia vita. E forse ora inizio a soffrirne leggermente di meno. Forse.

In qualche modo ho ridotto i motivi per rimandare le cose che vorrei fare. Se riesco, le faccio e basta. Sono andata al MAAM sulla Prenestina, dopo anni che ci pensavo. Ho comprato una macchina usata dopo 16 anni di patente inutilizzata. Non aspetto di capire bene i come e i se.

Guardo Meryem e mi chiedo per lei com’è questo tempo strano, allo stesso tempo sospeso e frenetico. La guardo e un po’ so già che non lo saprò mai, per molti validi motivi. Tratteniamo il respiro, qualche volta sullo stesso divano. E mi chiedo sempre la stessa cosa: come fare a lasciarla andare e a tenerla stretta allo stesso tempo, come farla essere libera e protetta. Non si può, semplicemente. Però è quello che dovrei fare, e neppure basterebbe.

Cosa voglio fare da grande


“Ma ancora ci scrivi, sul blog?”. Non lo so, idealmente sì. Nei fatti, spesso, non lo faccio. Riflettevo sul fatto che, al di là delle intenzioni, questo blog ha avuto la sua vera giovinezza quando ha svolto la funzione di supporto multidisciplinare alla mia maternità. Era il luogo dove potevo parlare di quello che mi stava a cuore e cercare di mettere insieme i pezzi di me stessa in anni di tempesta e sconquasso, interno e esterno.

È stato anche il luogo dove ho imparato che ci sono molti più modi di essere in relazione con le persone di quanto immaginassi. E che quindi, in un certo senso, poteva essere un modo di essere meno sola.

E oggi? Oggi che i figli sono grandi e devono avere la loro privacy, oggi che rimpiangiamo l’ingenuità che ci vedeva convinte e convinti che i nostri blog fossero sostanzialmente anonimi, slegati come erano dai profili social, posso ancora scrivere qui e sentirmi meno sola?

Ricordo una riflessione di Anna Lo Piano, che cito a braccio (ma poi cerco anche il link, magari*), sul fatto che l’adolescenza penetra come una lama esattamente nella finestra temporale che ci vede più fragili, come donne. Quando si comincia a invecchiare e ci assale un impulso irrefrenabile di fare bilanci impietosi.

Ma hai deciso che vuoi fare di grande?, chiedeva giorni fa un oroscopo su cui mi è cascato l’occhio. No, a dirla tutta no. Intanto perché già guardare al futuro, in questo momento è un atto di fede. Eppure io lo pretendo che ci sia ancora tempo, che ci sia l’opportunità di provare ancora a trovare una direzione.

Ci sono giorni come oggi. In cui non riesco a fare di meglio che mettere un passo dopo l’altro, cercando di non pensare a dove vado. E poi, domani o tra un mese, ci saranno giorni diversi.

*Ne trovo più di uno., di post. Questo, ad esempio.

Premettendo che non l’ho visto


Non ho mai seguito una sola puntata di Propaganda Live. Eppure apprezzo moltissimo alcuni dei protagonisti e non si contano ormai le persone che, conoscendomi, giurano che mi piacerebbe molto. È peraltro forse l’unica trasmissione dove si parla sistematicamente di temi che mi interessano. Eppure.

Inizialmente mi dicevo che era solo perché io la televisione ormai non la guardo quasi più e la sera ormai è consacrata al Netflix con la figlia. Però non è motivo sufficiente. Anzi, a rigore, Propaganda Live poteva diventare un abitudine anche per noi, un diversivo settimanale.

Una volta un’amica mi parlava in termini entusiastici di come il primo lockdown fosse stato illuminato da Propaganda, di quando non ne avrebbe mai fatto a meno, come fosse un ritrovo di amici. Lì mi è suonato un campanello. Non è che non mi fosse capitato di vederlo. Avevo attivamente delle resistenze a farlo. E una di quelle resistenze, la principale, aveva radici lontane.

Sul momento all’amica ho risposto di impulso che io, nata e cresciuta a Monteverde, a certi gruppi di amici intelligenti, brillanti e di sinistra avevo avuto una certa sovraesposizione e che forse adesso mi danno un po’ di allergia. Per i non romani, Monteverde è quartiere già da diversi decenni piuttosto radical chic e autocompiaciuto.

Poi le polemiche dei giorni scorsi mi hanno fatto mettere meglio a fuoco un aspetto. Da quel che vedo da filmati e condivisioni, Propaganda Live riproduce sullo schermo una dinamica da gruppo di amici, appunto. Sulla parità o non parità di genere non mi pronuncio, anche se confesso che come donna l’idea di beccarmi uno spiegone a settimana non mi entusiasma a prescindere (anche se stimo molto Marco Damilano). Certamente però quell’idea di gruppo mi rimanda, a torto o a ragione, ai gruppi di sinistra del mio liceo monteverdino. E quei gruppi nella mia esperienza non erano inclusivi, o per lo meno non lo sono mai stati nei miei confronti.

Essere una ragazza non particolarmente carina non aiutava, ma non era quello il punto, capisco ora (all’epoca mi pareva che quello fosse il punto fondamentale). Io soprattutto non ero socialmente e culturalmente coerente con quel gruppo. Non era tanto una questione di soldi, ma di stile di vita: ero diligente, abbastanza cattolica, avevo un orario preciso di rientro serale, non fumavo, ero mediamente timida. Avevo, insomma, le mie rigidità. Come spesso mi è successo nelle frequentazioni sociali successive, “non c’entravo niente con quelle persone”. E quel gruppo le persone diverse non faceva neanche la fatica di escluderle: non le vedeva proprio.

Ora io non voglio insinuare che la redazione di Propaganda Live sia uguale al circolo della FIGC che tentai invano di frequentare in alcune occasioni. Voglio solo dire che c’è qualcosa in quell’atmosfera di intesa che si respira che mi rimanda a quella sensazione di sostanziale impossibilità di partecipare, che semplificando un po’ è il motivo principale per cui non ho mai fatto politica attiva, pur avendolo a tratti desiderato. Proiezioni, mi rendo conto. Ma sufficienti a non farmi venire voglia di accendere la TV il venerdì sera.

Dalla parte di Giona


Stamattina, facendo colazione, mi sono letta “Dalla parte di Giona (e del ricino)” di Daniel Vogelmann. Come ho raccontato anche altrove, Giona è di gran lunga il mio personaggio preferito, nella Bibbia e un po’ anche nella letteratura in generale. Sono sicuramente dalla parte di Giona. Senza dubbio. Mi viene più difficile essere dalla parte del ricino, anche perché secondo me non era affatto un ricino, ma una pianta immaginaria… ma questi sono dettagli filologici.

Vogelmann conclude il suo commento con questa frase: “Comunque sia, bisogna immaginare Giona infelice” (alla conclusione della vicenda). Addirittura non si stupirebbe di sapere che si è tolto la vita, dato il suo reiterato desiderio di morire. Ecco, io non sono affatto d’accordo.

Qui però prima di andare avanti serve un disclaimer. Io chiacchiero di Bibbia e di Giona, ma questo testo, come ogni classico che si rispetti, può ben servire per esprimere sentimenti e anche drammi privati e collettivi. Anche io uso Giona e aver studiato filologia biblica me lo rende solo un po’ più facile. Non ho nessuna pretesa di dare l’interpretazione più corretta. Se Vogelmann in Giona vede lo strazio emotivo e intellettuale dell’ebreo e di suo padre davanti alla Shoah, ha pienamente ragione anche lui, naturalmente. Ciò detto, quando io leggo la domanda che conclude il libro di Giona, non me lo immagino infelice.

Arrabbiato, magari. Con quella frustrazione che conosciamo tutti di quando non riusciamo ad avere l’ultima parola. Ma io credo che il libro non sarebbe finito se, sotto sotto, Giona non avesse iniziato a capire quello che Yahwè cercava di fargli entrare in testa. E cioè che non era lui la misura di tutte le cose. Che le mucche di Ninive e a maggior ragione gli uomini contavano almeno quanto il suo qiqayon. Perché in fin dei conti è proprio la pianta che smaschera Giona, anche a se stesso.

Lui per tutto il libro si è raccontato che il suo giudizio era mosso solo dalla giustizia e dalla Torah. Che non voleva andare a Ninive in primo luogo perché gli assiri non sono il popolo eletto e poi perché perdonarli non sarebbe stato neanche giusto. Tanto vale andarsene all’altro mondo, allora, se il mio dio cambia le regole.

E invece in quel deserto a est di Ninive Giona decide che una pianta cresciuta in una notte in terra straniera vale per lui più dell’olivo piantato dai suoi antenati a Giaffa. Perché ci si è affezionato, anche se in fretta. Quindi magari le regole e le categorie della logica non sono così insostituibili e indiscutibili. L’amore mette in discussione confini e certezze. Vale per un uomo, figuriamoci se non vale per Yahwè.

Io dopo la risposta di Yahwè mi immagino Giona che, sbollita un po’ la rabbia, si decide a farsi una passeggiata a Ninive. E comincia a vedere le cose da un altro punto di vista. Le strade non sono piene di peccaminosi incirconcisi, ma di persone che parlano lingue diverse e pregano divinità varie. Un po’ quelle stesse che sulla nave si sono sforzate al massimo prima di rassegnarsi a buttarlo in mare, chiedendo peraltro prima la sua autorizzazione. “Credevano un altro diverso da te, ma non mi hanno fatto del male”, per dirla con De André.

Sarebbe davvero meschino un Dio che giudica con il nostro metro umano e che condivide i nostri pregiudizi. La lezione di Yahwè a Giona alla fine è proprio quella che più serve al mondo oggi: guardati dal fondamentalismo, che ha la pretesa di correggere Dio stesso con l’arroganza di pochi prepotenti (e tanti ignoranti). È quello che, oggi come allora, provoca le tragedie più grandi.

Reperti familiari – la ricetta dello strudel


Una disordinata e disorganizzata come me trova molto aiuto e conforto in due strumenti del web: i ricordi di Facebook, che mi fanno tornare alla mente e ricollocano nel tempo cose che altrimenti vagherebbero a caso nella memoria e l’archivio di Gmail, che conserva fedelmente parole, messaggi e documenti che non avrei alcuna speranza di non aver buttato, se fossero cartacei.

Oggi cercavo una cosa che ancora non ho trovato in questo secondo archivio smaterializzato, ma ne ho trovata un’altra che invece mi rammaricavo molto di aver perso. La ricetta dello strudel di mio padre, dettata quasi parola per parola dalla sua voce, non ricordo più in che occasione. Mi ricordo che ci eravamo messi sbracati sul lettone dei miei, con lui che declamava e io che prendevo appunti.

Ed eccola qui, ripescata dal baule virtuale in cui era sprofondata, tutta per voi (e per me), ben condita di lessico famigliare. L’analisi di alcune espressioni richiederebbe un apparato critico che vi risparmio. Vi basti sapere che l’anafora del “tramite…” è una citazione di Vanna Marchi e del suo proverbiale “tramite vasca da bagno”.

STRUDEL ( alias STRUCCOLO)
Miscia miscia finché viene tutto amalgamato e sshh…sshh (onomatopeico). Dopo di che riposa (la pasta) un po’. Spelansi pomi (da 5 a 7, secondo grandezza). Affettansi gli stessi tramite tavoletta lamata (ghigliottina per patate fritte). Tagliansi in due pezzi omogenei la pasta e spianasi mettendosi farina sul coso che non si ‘ttacchi. Nel frattempo in teglia cospicuamente burrevole si imbrunisce pane grattugiato (sul fuoco) in congrua quantità. Inizia l’opera.

Sulla prima spianata, tramite cucchiaio di legno, spargesi qua e là in modo omogeneo il pan grattugiato brunito, indi seminasi fette pomicine in spessore distribuito. Sul tutto pinoli a pioggia, zibibbi a pioggia, cannella squamosa sbriciolata ma non troppo, due cucchiai di zucchero. Arrotolare e chiudere mentre pezzi di ripieno sbottano qua e là dalla pasta. Non perdersi d’animo perché, se si comincia a stuccare, il rotolo si sbrega completamente e devesi passare senz’altro al secondo. Dicesi qui per smemoratezza che sotto la pasta era stato d’uopo mettere un canovaccio (vulgo: asciugamano) di lino pulito, onde contenere lo struccolo intiero con buone speranze. Contemporaneamente, o in immediata successione temporale strofinare fianchi e fondo della teglia culinaria tramite burro; inserirvi congruo pane grattugiato e remenare la teglia in su e in giù di modo che aderisca al burro. Mangiare rapidamente il pane grattugiato superfluo non aderente alla teglia. Con mossa destra, lasciando integro, se riesce, il corpo pitonesco dello struccolo, arroncigliarlo a cornetto nelle due estremità. Ripetere l’intera operazione con la sfoglia n.2, non disperando di riuscire almeno con questa. In caso propizio troveremosi di fronte a teglia burrata, pan grattugiata ed empia di due struccoli in senso contrapposto e speculare come due gemelli. Romperemo due uova onde ricavarne in apposita scodella il tuorlo giallo che, tramite polpastrello dell’indice destro (salvo il caso di cuoco mancino) si spalmerà opportunamente sul dorso esteriore dei due struccoli, allo scopo di farli dorati ( o neri del tutto per eccesso di cottura dell’insieme). Però in tal caso non ci sarà alcun danno per la doratura, dato che l’intero dolciume sarà carbonizzato.

La paura è il banco di prova del coraggio


Ieri il mio amico Ralph mi ha mandato in versione digitale delle foto che avevo stampato io, ma di cui ho perso le mie copie molti anni fa. Mi ha fatto ripensare a un’estate intensissima, quella del 1995. Un po’ più di un anno fa, per un corso di scrittura autobiografica, avevo scritto questo racconto.

Il dormitorio era composto di fabbricati bassi e grigi, tutti uguali e praticamente indistinguibili, ammucchiati nell’angolo sud ovest della città. Le stanze piccole, due letti le cui reti si sovrapponevano in un angolo, sbarre alle finestre. In fondo al corridoio, una grande cucina senza porta. Le porte mancavano, del resto, anche ai due capi del corridoio che si aprivano verso l’esterno. Quando avevo vinto una borsa di studio a Gerusalemme avevo in mente uno scenario diverso. Quel posto non era solo pieno di sconosciuti, che ben poco avevano a che fare con me. Era anche fisicamente lontano. Dai luoghi che avevo sognato, ma anche dall’Università ebraica dove frequentavo le lezioni ogni giorno, che si trovava nello spigolo nord est della città, diametralmente opposta alla Residenza Aleph. Andare a piedi era impossibile. Per questo era stata istituita una linea di autobus apposita, la 18 aleph. Dopo dieci giorni, quando iniziavo a prendere un solitario ritmo tra lezioni, compiti e spesa al minimarket, un autobus saltò in aria. A Roma avevo sentito gli esperti pontificare per mesi sul fatto che gli attentati a Gerusalemme erano impossibili, in virtù della santità del luogo. Io stessa avevo ripetuto convinta quell’assunto, che mi era parso convincente. Ma c’è sempre una prima volta. La prima volta, per me e per Gerusalemme, fu il 21 agosto 1995.

Avevo preso la corsa immediatamente successiva e non vidi l’esplosione, ma il suo effetto. L’asfalto in fiamme. Il signore barbuto inginocchiato per terra che trafficava con delle bustine. Seppi poi che stava mettendo religiosamente insieme brandelli di cadaveri, con la meticolosità data dall’abitudine. Non ricordo molto della mattina e del pomeriggio che seguirono. Arrivati in classe, l’insegnante scrisse alla lavagna delle parole: attentato, esplosione, feriti. Forse anche “vittime”, visto che alcuni studenti e una professoressa del nostro corso estivo erano morti. Ma quella parola non la ricordo. Poi ci chiesero di spiegare alla classe come ci sentivamo. Nella memoria confusa di quei momenti, rivivo ancora con chiarezza la rabbia che provavo. Una rabbia esagerata, persino irrazionale, che non era indirizzata agli attentatori, ma a quel modo neutro e sorridente di gestire la situazione, a quella compostezza di normalità che faceva sentire me anomala, emotiva, fuori le righe. “Questo a casa mia non è normale!”, tentai di dire quando arrivò il mio turno. Chissà se scelsi l’espressione corretta, chissà se qualcuno capì. Comunque si andava avanti, perché altra via non era data. Non a me, straniera in borsa di studio. Non a loro, che vivevano lì non per due mesi, ma da una vita intera.

Un paio di anni dopo, la lettrice dell’università si fece sfuggire un particolare che mi diede la misura di quanto obbligata fosse quella reazione che tanto mi aveva urtato. Lei era una donna energica, sportiva, con un largo sorriso sfacciato sotto una cascata di ricci scuri. Appassionata di sport energici e di abbigliamento provocante, aveva conosciuto suo marito nell’esercito, dove lei rivestiva un grado superiore al suo. Le brillavano gli occhi quando raccontava di quel periodo, del riscatto di una ragazza immigrata dall’Iraq in un Paese nuovo di zecca, alla scalata di gerarchie che nella sua famiglia di origine erano riservate agli uomini. Le smancerie e i sospiri non le appartenevano. Non ricordo come venimmo a parlare dei suoi bambini e lei raccontò che ogni mattina, a Tel Aviv, li mandava a scuola su tre autobus diversi. Stavo per chiedere il perché di quella bizzarria logistica, quando mi è tornato in mente il 18 aleph e alla corsa partita due minuti dopo, che mi aveva permesso di essere viva. Era una soluzione pratica di riduzione del danno, una routine persino scaramantica. Un modo come un altro di sopravvivere, agli attentati e alla paura costante.

Alle 16:45 del 21 agosto 1995 finirono, come sempre, le lezioni. Su quell’autobus dovevo salirci di nuovo e continuare a trascorrerci, giorno dopo giorno, 35-40 minuti ogni volta. Quando agosto finì era opportuno acquistare un abbonamento mensile. Con le due italiane che avevo conosciuto al campus scherzammo: “Andiamo insieme a comprare il biglietto per il Paradiso?”. Scherzavamo, ma era dura per tutte. Ogni tanto, nel bel mezzo del tragitto, lo sguardo mi cadeva su qualcuno. Quello ha l’aria triste, troppo triste. Magari sta per compiere un gesto estremo, trascinandomi con sé. Quella donna ha lo sguardo sfuggente, sembra nervosa. Che strana forma, quello zaino. E allora il cuore iniziava a battere più forte, il respiro restava spezzato in gola. Scendevo di corsa, facendomi largo a spintoni. Respiravo. Mi guardavo intorno, sola. Aspettavo di riprendere il controllo. Poi, quando arrivava la corsa successiva, risalivo, mostrando all’autista il mio biglietto per il Paradiso.

Neppure per un momento presi in considerazione l’idea di tornare in Italia. Neanche i miei genitori, nelle brevissime conversazioni che riuscimmo ad avere, lo suggerirono. Non era epoca di cellulari e tutto avveniva per mezzo di telefoni pubblici a gettoni e i dialoghi erano scanditi da quella sorta di metronomo ansiogeno dato dal rumore delle monete inghiottite rumorosamente man mano che il credito si esauriva. Per giunta, in quei giorni convulsi, i genitori di molti studenti si appuntavano l’ultimo numero da cui i figli li avevano contattati e cercavano incessantemente di richiamarli. Mi successe, una sera, che quando finalmente era arrivato il mio turno per telefonare, sollevato il ricevitore sentii una voce maschile dall’altro capo del filo. Parlava russo. Non capivo una parola, ma potevo leggere in quelle sillabe ignote l’apprensione di un padre lontano. Non ebbi cuore di riagganciare. Provai a parlare inglese, niente. Ma neanche lui voleva arrendersi e alla fine tentò la strada più logica. Eravamo lì, sua figlia e io, per studiare ebraico. Lei, probabilmente, per ricominciare in Israele una nuova vita. Io no e ed ero poco più di una principiante. Lui forse lo era più di me: eppure, dando fondo alle parole lette sui libri di grammatica, trovammo un canale di comunicazione, per quanto incerto. Mi disse che cercava sua figlia, mi chiese se la conoscevo. No, il nome non mi diceva nulla. “Com’è?”, provai a chiedere, anche se nessuna descrizione mi avrebbe aiutato a individuare quella persona tra le centinaia di ragazze russe del campus. Lui esitò. E poi, con voce spezzata, rispose: “Bella. È bella”.

Quell’estate, più che in altre circostanze della mia vita, imparai il coraggio che non passa per i gesti forti, per gli impulsi a compiere qualcosa di risolutivo. Imparai il coraggio di rimanere, giorno dopo giorno, sera dopo sera. Resistendo alla solitudine, alla frustrazione di non trovare le parole. Fino alla fine di quel soggiorno di due mesi affrontai una violenza costante e quotidiana che mi era del tutto nuova. Il brivido freddo della canna di un mitragliatore che mi sfiorava accidentalmente su un autobus. Gli slogan terribili urlati dai manifestanti davanti al Parlamento, gli adesivi distribuiti da ragazzi vestiti di nero agli angoli del mercato: “Il popolo contro Rabin”. L’aggressività sorprendente della maggior parte delle persone con cui mi trovavo a interagire, alla posta, in banca, al supermercato. Affrontavo anche la violenza a distanza del mio fidanzato, che dopo un paio di telefonate si rifiutava di parlarmi ulteriormente, negandosi al telefono mentre i miei gettoni cadevano inesorabili. Era indignato e offeso perché non avevo deciso di rientrare, dopo l’attentato. Io non avevo preso in considerazione neppure l’idea di farlo, lui non aveva immaginato neanche per un secondo che non lo facessi. Un uomo talmente distrutto dalla preoccupazione per me da rifiutarsi di sapere, per il mese e mezzo che seguì, se fossi viva o morta. Io scrivevo lettere su lettere, fitte di espressioni enfatiche e immagini poetiche. Trovavo le buste di posta aerea in arrivo dall’Italia infilate sotto la porta della mia camera, rigorosamente aperte da una qualche forma di censura che non so se fosse ordinaria o riservata a noi studenti stranieri: erano tutte di mia madre. Lui sprofondò in un silenzio totale, che si interruppe soltanto quando volai di nuovo a Roma.

Recentemente, facendo per l’ennesima volta pulizia tra le cose rimaste ammucchiate in scatoloni in casa mia, è spuntato un mucchio di buste con il francobollo di Israele, indirizzate a quell’eccentrico egoista che ho finito per sposare e che poi, finito il matrimonio, ha lasciato cumuli di detriti dietro di sé. Erano più di trenta e nessuna era stata aperta. Le ho infilate in un sacco della spazzatura e mi sono liberata di quel vecchio peso senza rimpianti.

Da capo


Come al Monopoli, quando una carta ti rimandava al Via (o in prigione direttamente, senza passarci neanche, per quel via), mi ritrovo con la spiacevole sensazione di ritrovarmi nello stesso punto che pensavo di aver superato. Mi immagino anche i cartoni animati di Scooby-Doo, quando i detective cialtroni si trovavano a girare in loop in un labirinto. Insomma, a volte mi chiedo chi voglio prendere in giro. Tanto varrebbe sedersi e basta.

Sarà il caldo soffocante, saranno le cose che non girano per il verso giusto (ma ci sarà, poi, un verso giusto?). Sempre più spesso poi mi viene il dubbio che quello che pare funzionare per il resto del mondo, al mio caso non si applichi. Insomma, magari questa valigia della mia vita non vuol saperne di chiudersi perché la forma non si adatta al contenuto. Non è solo che non riesco a piegare ordinatamente la roba. Magari devo decidermi a cambiare contenitore.

Spero che voi siate usciti dal lockdown meno inclini alle metafore deprimenti…

Zoom


Si… può… fare! Passato il primo momento di disorientamento e scetticismo, mi trovo circondata di entusiasti della piattaforma. Specialmente per organizzare eventi, conferenze, corsi.

Ora, c’è indubbiamente una certa ebbrezza nel vedere che per partecipare a qualcosa che interessa basta cliccare dal proprio divano. I tempi si incastrano assai meglio nel virtuale. E poi certo, ci si sente, se l’organizzatore è democratico ci si vede anche. L’ho apprezzato, all’inizio, quel senso di vicinanza. Scattavamo foto ricordo, persino.

C’è un però. Forse più di uno, ma uno più grande degli altri. Chi parla non solo si ascolta, ma si guarda pure. Ed ecco che, come per magia, scatta l’effetto predica. Ho visto relatori normali trasformarsi in retori pomposi, innamorati del suono della propria voce.

Insomma, secondo me su può certo fare ma non necessariamente ci migliora. E ora vi lascio, ho un corso su Zoom.

Ah, per la cronaca: prevedo che queste videolezioni continueranno ad essere proposte anche in futuro, ma dell’adesione massiccia non mi sentirei di scommettere.

Gentilezza


“I hate people when the are not polite”, recita il verso di una canzone che canticchio spesso negli ultimi tempi. La canticchio anche per ridere un po’ sul fatto che una persona che conosco, abbastanza inaspettatamente, si comporta nei miei confronti in modo veramente sgarbato. Non saprei dire se la sua sia semplice noncuranza o un atteggiamento studiato.

Vedendo però alcuni personaggi che si mettono in mostra sui social, Instagram soprattutto, facendosi quasi un vanto della propria arroganza, il dubbio che il nostro sia cafone per precisa scelta stilistica mi sorge.

In Israele la chiamavano huzpa e ne facevano una virtù nazionale. Io non trovo assertivo qualcuno che deride il lavoro altrui, o che si scorda del compleanno di un’amica e non prova nemmeno a scusarsi.

Apprezzo i gesti gentili, anche un po’ fuori dal mondo. La gentilezza a casaccio, che a volte i meme ci esortano a praticare, è molto poetica. Ma pensandoci meglio, ancora più preziosa è l’attenzione fedele alle piccole cose, quella che dura negli anni e quasi non la noti, là per là. Ma poi, ripensandoci, brilla in tutto il suo valore. Specialmente in un mondo popolato di maleducati.

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