Disclaimer: questo non è un post sulle prove Invalsi. Ne trovate tanti in rete, qualcuno pro e qualcuno contro, e non si sente il bisogno di aggiungerne un altro. Questo è un post su di me in qualità (più o meno nell’ordine) di persona, di rappresentante di classe e di madre.
Arrivare in seconda elementare con un maestro poeta e obiettore è nel 99,9% dei casi una gran fortuna, per i bambini e per i di loro genitori. Mi è stato proposto di essere rappresentante di classe in gran parte per quello 0,1% dei casi, ovvero per il momento – che oggi si conclude – in cui ci saremmo trovati di fronte al dilemma: “Invalsi, che fare?”. Sintetizzando i termini della questione all’estremo: lui sappiamo come la pensa, ma l’altra maestra? E noi, come la pensiamo? Questa terza domanda certe volte mi viene il sospetto che per molti abbia meno rilevanza delle prime due, ma io non solo me la pongo, ma me ne pongo pure una quarta: quello che scelgo di fare o non fare come interagisce con quello che mia figlia capisce e pensa? Per farvela breve, io studio, rimugino, dubito e ripenso fin dall’anno scorso. E, ve lo dico subito, credo di essermi fatta un’idea piuttosto precisa di come la penso. Peccato però che questa mia posizione sia di una forma e di una dimensione che non si adatta alle scatole ad oggi disponibili in commercio, ovvero all’adesione o alla protesta. Il mio problema è che quando mi faccio un’opinione io alla scatola in cui confezionarla non ci penso. E per certi versi faccio male, perché poi mi tocca tenermela per me (o condividerla con pochi intimi), perché non posso spedirla a nessuno, non posso metterla in pila con quella di altri come me, non posso servirmene per costruire qualcosa. Oggi credo che molti staranno pensando di me che non mi sono posta il problema, che non mi voglio esporre, che non me ne frega nulla della scuola italiana in genere e della vita scolastica di mia figlia in particolare. Il che, ve lo dico con il cuore in mano, non è vero. Se mi conoscete un po’, capirete che è persino un po’ inverosimile. Però una cosa è certa: ho mandato mia figlia a scuola, sia ieri che oggi e non ho scritto diffide o documenti di alcun genere. In parole povere, non ho fatto niente. Riassumo dunque qui, più per promemoria che per altro, il punto a cui sono arrivate le tre me attualmente coinvolte nella questione.
Io come persona. Non ce la faccio davvero a sottoscrivere una modalità di protesta che non condivido fino in fondo. Sono convinta, convintissima che il sistema Invalsi così come è oggi sia inefficace, inutile quando non dannoso, costoso e a tratti pure incoerente (tipo quando fa media nell’esame di terza media). Però ci sono alcuni assunti, detti e non detti, nella protesta che non mi trovano altrettanto convinta. Ne esemplifico uno per tutti, che è probabilmente il principale, facendo riferimento a questo comunicato dei Cobas (punto 5): “Le prove non misurano la buona didattica né il buon insegnante: un buon insegnante è colui che, rispettando i tempi e le attitudini dei suoi allievi, riesce ad appassionarli alla sua materia, riesce a coinvolgerli e a motivarli nello studio; tutto questo non si misura“. E niente, io questo grassetto non ce la faccio davvero a condividerlo così com’è. Potrei dire “tutto questo non si misura facilmente”, persino “tutto questo non si misura in questo modo, cioè con questo sistema così com’è stato immaginato e soprattutto applicato”. Ma “tutto questo non si misura” no, non ce la faccio a condividerlo. La buona didattica si deve poter misurare e i buoni insegnanti dovrebbero porsi il problema di come farlo. Il motivo per cui lo penso nasce precisamente dalla mia esperienza. Prima di iniziare a fare il lavoro che faccio io avrei affermato convintamente l’immisurabilità di quasi tutto. Ora sono altrettanto convinta che la misurazione è una delle cose più importanti, complesse e delicate che esistano. Una buona misurazione aiuta a migliorare, a non inventare l’acqua calda ogni volta, a individuare meglio – al di là degli scoramenti e delle sensazioni, che sono pur sempre componenti fondamentali della vita – cosa non funziona e cosa invece funziona. A usare le risorse, soprattutto quelle umane (intese come gli sforzi, la fatica, la fantasia, la pazienza) nel migliore dei modi. Una misurazione pensata e fatta male è inutile e persino dannosa, su questo concordo pienamente. Ma non è una buona scusa per rinunciare a farla. Specie in un servizio come la scuola pubblica la misurazione è un’urgenza e una tutela e se – come è evidente – questo sistema di misurazione e valutazione presenta vistose criticità, bisogna trovare il modo di correggerlo. Ma non posso, per la mia storia e per tutto quello in cui credo, argomentare che “tutto questo non si misura”. Potrei continuare il pippone, ma mi astengo.
Io come rappresentante di classe. Mi trovo davanti una situazione spinosa. Una minoranza molto minoritaria di sostenitori dell’Invalsi. Un gruppo nutrito di aderenti alla protesta, per motivi diversi. Un gruppo, quasi altrettanto nutrito, di incerti, potenzialmente indirizzabili, ma tendenzialmente tiepidini. Alla fine ho scelto, e lo rifarei, di diffondere le corrette informazioni logistiche (correggendo voci inesatte che di tanto e tanto si diffondevano) e non proporre una linea comune. Non mi sarei sentita a posto con la mia coscienza a fare in altro modo. Così sono io. Come rappresentante faccio tutto quello che posso per promuovere un clima cordiale tra noi (che c’è già spontaneamente, di suo), per evitare i drammi e le enfatizzazioni (ritengo, forse a torto, che siamo tutti usciti dall’adolescenza e abbiamo già vite abbastanza complicate di loro, senza necessità di aggiungere pathos). Ma più in là non vado.
Io come genitore. Alla fine Meryem ha fatto le prove dei test, probabilmente non i test in sé (lo saprò tra qualche ora). Ma quando mi ha raccontato di queste prove mi sono limitata a ascoltare, senza commentare. Non le ho sminuite o ridicolizzate, non le ho enfatizzate in alcun modo. Lei sapeva che il maestro le brucerebbe, ed è giusto che lo sappia. Sapeva che la maestra, pur non essendo probabilmente una fan, gliele ha fatte provare e che, pur essendo un pochino difficili, non c’era nulla che lei non fosse in grado di fare. Niente alone di mistero, dunque, e niente paura. Oggi a scuola una sua amichetta aveva in mano la copia della diffida che sua madre aveva depositato in segreteria. “Cos’è?”, mi ha chiesto ovviamente Meryem. L’amichetta non sapeva rispondere e allora io le ho detto la prima che mi è venuta, non troppo lontana dal vero: “Lo sciopero dei genitori”. Alcuni insegnanti scioperano, alcuni no. Alcuni insegnanti scioperano alcune volte e altre no. Così i genitori. Se mi chiederà perché stavolta io no, cercherò di spiegarglielo. Me la immagino, Meryem, che mi chiede: “Ma quindi tu non pensi come il maestro?”. E qui dovrò spiegarle la cosa più difficile. Che si può apprezzare profondamente qualcuno, rispettarlo, persino amarlo e lo stesso non essere d’accordo con lui su una, due, tre cose o mille cose. Anche se quel qualcuno è un maestro meraviglioso. Anche se quel qualcuno è mio fratello, mia sorella, la mia migliore amica, il mio compagno. Anche se quel qualcuno è la mia mamma. Anche se quel qualcuno è mia figlia, per cui sarei comunque disposta a fare qualsiasi cosa. La libertà è una cosa più complicata di quello che sembra.
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